Addio nomadi professionali, il posto fisso vince ancora
La narrazione su quanto sia affascinante moltiplicare le esperienze di lavoro rivela tutta la sua inconsistenza. E, alla prova della realtà, i giovani cercano la vecchia, cara concretezza.Da una parte ci sono i discorsi sul presente, sul futuro, sui cambiamenti del rapporto fra persone e lavoro dopo il Covid, sulle nuove dimensioni dell’impegno professionale che vedano una maggiore quantità di tempo lasciata libera, quindi una dimensione del lavoro marginale rispetto alla vita nel suo complesso. Discorsi. Poi c’è da mettere insieme il pranzo con la cena e allora torna la dimensione reale di ciò che si fa, quella che prevede orari normali, uno stipendio degno e, possibilmente, un’occupazione non «a intermittenza». Sembrava che il sogno del posto fisso si fosse incamminato sul viale del tramonto, snobbato dalle giovani generazioni, dai Millennials, dalla Generazione Z refrattaria al famoso impiego dietro a una scrivania. Intendiamoci, quei giovani che vanno ai colloqui e come prima domanda pongono quella relativa al tempo libero hanno una concezione dell’impegno un po’ particolare che è la seguente: faccio quello che mi pare e questo è la parte fondamentale della mia vita poi, nel caso, lavoro anche. Molti di questi sono i cosiddetti «figli di papà» che sanno benissimo di avere soldi indipendentemente dall’impiego ma, purtroppo, esclusi loro, ce ne sono molti altri che non fanno di conto finché il conto non glielo presenta la vita e cioè finché non abbandonano il tetto familiare dove mangiano, bevono, dormono ed escono di casa - come si dice - lavati e stirati. Basti pensare che in Italia la media dell’età alla quale si lascia la famiglia d’origine è 34 anni (la più alta in Europa, dove invece è intorno ai 24). Non tutti questi, anzi non la maggioranza, sono giovani che stanno lì perché non potrebbero stare altrove. Questo spiega molto di ciò che avviene nei colloqui di lavoro.Ma torniamo al famoso posto fisso e, in particolare, torniamo a quello «pubblico», cioè all’interno della pubblica amministrazione. Ebbene, sette italiani su 10 ne sono attratti. Ce lo dice l’indagine Barometro PA. Basti pensare che nel 2024 saranno 1,3 milioni i candidati a questi impieghi. Dicevamo prima che i discorsi stanno a zero perché, alla fine, a parte tutti i sofisticati sociologismi, ci troviamo davanti a un ritorno massiccio costituito dalla ricerca di stabilità. Del resto questo non deve stupire perché nel nostro mondo la sensazione di instabilità dopo la pandemia, con le guerre, con mezza Africa in fiamme, ha pervaso larga parte della popolazione e non vede solo chi non vuol vedere. Nell’incertezza generale un lavoro stabile torna a giocare un ruolo principe.Giova ricordare qualche numero: i pubblici dipendenti nel 2022 toccavano i 3,7 milioni dei quali 2,35 sotto i 55 anni e ben 1,35 sopra i 55 anni. Di questi oltre un terzo potranno andare in pensione nei prossimi 10 anni, si tratterà di oltre un milione e 300 mila posti di lavoro. Numeri imponenti. Oggi la classe di età più rappresentata è quella tra i 55 e i 59 anni. Il fatto di trovare la pubblica amministrazione attrattiva come datore di lavoro è dato, per il 28 per cento, perché considerata un’esperienza professionale importante, per il 44 (che resta comunque la risposta predominante) come un impiego stabile. È interessante rilevare anche che ad attrarre sono soprattutto i profili «giuridici», cioè i laureati in legge, mentre per i profili più tecnici, quali ingegneri informatici, geologi, architetti, la Pa soffre da anni la concorrenza del settore privato dove i laureati preferiscono rivolgersi, in prima istanza, perché magari scontano una maggiore instabilità e incertezza del posto fisso, ma possono ambire - in caso fortunato - a stipendi più alti o a remunerazioni che, nel tempo, possono arrivare a livelli importanti. Il pubblico è ancora percepito come legato a una carriera collegata all’anzianità piuttosto che ai risultati. Purtroppo, questo fatto è largamente veritiero.Che ci dice tutto questo? Una cosa semplice: le previsioni futurologiche che ci venivano propinate durante il Covid e anche dopo, e in particolare quella «Nulla sarà più come prima», si sono rivelate, nel migliore dei casi, delle fandonie. Nel peggiore dei casi, scenari che hanno impegnato cervelli e istituzioni anche accademiche per mesi - nei quali si è tentato di costruire una rappresentazione del mondo del lavoro per il domani - che di fronte al classico posto fisso pubblico (che sembrava un sogno delle generazioni passate) si sono sciolti come neve al sole. Alla fine, continuano a prevalere i metodi per mettere insieme il pranzo con la cena, e possibilmente anche la prima colazione, magari al bar: cappuccino e brioche.
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professionali,
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vince ancora](https://www.panorama.it/media-library/ufficio.jpg?id=20068798&width=980#)
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La narrazione su quanto sia affascinante moltiplicare le esperienze di lavoro rivela tutta la sua inconsistenza. E, alla prova della realtà, i giovani cercano la vecchia, cara concretezza.
Da una parte ci sono i discorsi sul presente, sul futuro, sui cambiamenti del rapporto fra persone e lavoro dopo il Covid, sulle nuove dimensioni dell’impegno professionale che vedano una maggiore quantità di tempo lasciata libera, quindi una dimensione del lavoro marginale rispetto alla vita nel suo complesso. Discorsi. Poi c’è da mettere insieme il pranzo con la cena e allora torna la dimensione reale di ciò che si fa, quella che prevede orari normali, uno stipendio degno e, possibilmente, un’occupazione non «a intermittenza». Sembrava che il sogno del posto fisso si fosse incamminato sul viale del tramonto, snobbato dalle giovani generazioni, dai Millennials, dalla Generazione Z refrattaria al famoso impiego dietro a una scrivania.
Intendiamoci, quei giovani che vanno ai colloqui e come prima domanda pongono quella relativa al tempo libero hanno una concezione dell’impegno un po’ particolare che è la seguente: faccio quello che mi pare e questo è la parte fondamentale della mia vita poi, nel caso, lavoro anche. Molti di questi sono i cosiddetti «figli di papà» che sanno benissimo di avere soldi indipendentemente dall’impiego ma, purtroppo, esclusi loro, ce ne sono molti altri che non fanno di conto finché il conto non glielo presenta la vita e cioè finché non abbandonano il tetto familiare dove mangiano, bevono, dormono ed escono di casa - come si dice - lavati e stirati. Basti pensare che in Italia la media dell’età alla quale si lascia la famiglia d’origine è 34 anni (la più alta in Europa, dove invece è intorno ai 24). Non tutti questi, anzi non la maggioranza, sono giovani che stanno lì perché non potrebbero stare altrove. Questo spiega molto di ciò che avviene nei colloqui di lavoro.
Ma torniamo al famoso posto fisso e, in particolare, torniamo a quello «pubblico», cioè all’interno della pubblica amministrazione. Ebbene, sette italiani su 10 ne sono attratti. Ce lo dice l’indagine Barometro PA. Basti pensare che nel 2024 saranno 1,3 milioni i candidati a questi impieghi. Dicevamo prima che i discorsi stanno a zero perché, alla fine, a parte tutti i sofisticati sociologismi, ci troviamo davanti a un ritorno massiccio costituito dalla ricerca di stabilità. Del resto questo non deve stupire perché nel nostro mondo la sensazione di instabilità dopo la pandemia, con le guerre, con mezza Africa in fiamme, ha pervaso larga parte della popolazione e non vede solo chi non vuol vedere. Nell’incertezza generale un lavoro stabile torna a giocare un ruolo principe.
Giova ricordare qualche numero: i pubblici dipendenti nel 2022 toccavano i 3,7 milioni dei quali 2,35 sotto i 55 anni e ben 1,35 sopra i 55 anni. Di questi oltre un terzo potranno andare in pensione nei prossimi 10 anni, si tratterà di oltre un milione e 300 mila posti di lavoro. Numeri imponenti. Oggi la classe di età più rappresentata è quella tra i 55 e i 59 anni. Il fatto di trovare la pubblica amministrazione attrattiva come datore di lavoro è dato, per il 28 per cento, perché considerata un’esperienza professionale importante, per il 44 (che resta comunque la risposta predominante) come un impiego stabile. È interessante rilevare anche che ad attrarre sono soprattutto i profili «giuridici», cioè i laureati in legge, mentre per i profili più tecnici, quali ingegneri informatici, geologi, architetti, la Pa soffre da anni la concorrenza del settore privato dove i laureati preferiscono rivolgersi, in prima istanza, perché magari scontano una maggiore instabilità e incertezza del posto fisso, ma possono ambire - in caso fortunato - a stipendi più alti o a remunerazioni che, nel tempo, possono arrivare a livelli importanti. Il pubblico è ancora percepito come legato a una carriera collegata all’anzianità piuttosto che ai risultati. Purtroppo, questo fatto è largamente veritiero.
Che ci dice tutto questo? Una cosa semplice: le previsioni futurologiche che ci venivano propinate durante il Covid e anche dopo, e in particolare quella «Nulla sarà più come prima», si sono rivelate, nel migliore dei casi, delle fandonie. Nel peggiore dei casi, scenari che hanno impegnato cervelli e istituzioni anche accademiche per mesi - nei quali si è tentato di costruire una rappresentazione del mondo del lavoro per il domani - che di fronte al classico posto fisso pubblico (che sembrava un sogno delle generazioni passate) si sono sciolti come neve al sole. Alla fine, continuano a prevalere i metodi per mettere insieme il pranzo con la cena, e possibilmente anche la prima colazione, magari al bar: cappuccino e brioche.