Dizionario minimo anti-Trump (2)

Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/2: capitalismo woke e addio Occidente (era ora!) Nazione (come azienda al quadrato)   Paradosso vuole che sia l’imprevedibile Trump, uomo fondamentalmente privo di […]

Gen 30, 2025 - 13:26
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Dizionario minimo anti-Trump (2)

Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/2: capitalismo woke e addio Occidente (era ora!)

Nazione (come azienda al quadrato)  

Paradosso vuole che sia l’imprevedibile Trump, uomo fondamentalmente privo di princìpi, a rappresentare il ragazzo più ragionevole della compagnia installatasi al vertice Usa. Oltre tutto intenzionato a far valere il suo ruolo di decisore effettivo. Lo si evince, ad esempio, dall’assegnazione del programma Stargate (vedi voce “Liberismo”), andata a una joint venture comprendente OpenAI, la produttrice di Chat GPTcon la quale Musk è agli stracci in tribunale.

Quest’ultimo è a suo modo un caso esemplare. Musk, dopo aver rotto con Sam Altman su chi dovesse comandare in azienda proprio nello stesso anno, il 2017, in cui apponeva la firma ai farisaici Asilomar Principles (“l’intelligenza artificiale messa al servizio di ideali etici condivisi e a beneficio di tutta l’umanità”: sì, come no) fa partire una causa, dopodiché la allarga sostenendo che OpenAI schiaccia la concorrenza in combutta con Microsoft, e nel 2023 torna alla carica firmando un appello, assieme al cofondatore di Apple Steve Wozniak, per chiedere una moratoria sullo sviluppo del prodotto più famoso del concorrente, ChatGPT.

Andiamoci piano dunque nel descrivere la sfilata dei multimiliardari ai piedi di Trump come un blocco omogeneo. Non solo perché quelli da sempre vicini alla sinistra, Mark Zuckerberg (Meta), Jeff Bezos (Amazon) e Sundar Pichai (Google), si sono trasformati in neo-cortigiani per mera necessità. Ma anche perché è fra gli stessi trumpiani “ante marcia” che non mancano rivalità, gelosie e, come si è visto, perfino scontri aperti.

In un simile contesto, Trump avrà buon gioco a impersonare l’arbitro con diritto di ultima parola. Privilegiando ora questo ora quel potentato, impiegando l’antica tattica del divide et impera. Anche, e soprattutto con un Musk a tutt’oggi detentore unico di una rete di satelliti, Starlink, capace di soddisfare le esigenze di interi Stati come dell’ultimo omino sperduto su un cocuzzolo di montagna. Una rendita di posizione che ne fa una grande potenza vivente. Ma che deve comunque fare i conti con gli altri colossi di diverso ordine e grado, come i sovrumani fondi finanziari, BlackRock, Vanguard, State Street, a loro volta i soli a poter manovrare sullo scacchiere mondiale capitali come nessun altro sulla faccia della Terra.

C’è chi pensa, e chi scrive non solo lo pensa ma lo auspica, che fra i caratteri autoritari di Musk e Trump l’idillio, se idillio è, può rompersi. Si obietterà che, per uomini di business quali entrambi sono, un accordo si può sempre trovare. Ma difatti il comun denominatore fra il trumpismo (l’impasto MAGA di nazionalismo, conservatorismo cristianoide ed edonismo piccolo borghese) e lo pseudo-libertarismo high tech non è nient’altro che l’aziendalismo come ideologia. Trump concepisce e gestisce gli United States come fossero un’azienda da arricchire: punto, fine. Beninteso, approfittandone lui per primo, seduto sulla poltrona presidenziale mentre, da privato imprenditore, macina milioni battendo la sua personale criptovaluta. Roba che neanche nel Medioevo. L’unica unità di misura che conosce, e a cui affida il primato strategico, è il denaro.

Tuttavia, l’aziendalismo non va pensato qui nell’accezione banale, berlusconiana, di sovrapporre lo Stato all’impresa, il pubblico al privato. Qua l’accento va posto sul sostantivo “ideologia”, nel senso di credo identitario che infonde una fede d’appartenenza. Mi spiego. Come avviene nelle corporations nelle quali il lavoratore, sottoposto al lavaggio del cervello, deve sentirsi parte di una “grande famiglia”, e in tal modo aderire nell’intimo agli obiettivi padronali, nel discorso trumpiano la stessa dinamica la ritroviamo, traslata, nel rapporto fra cittadino e nazione. Perché se la Patria è chiamata in causa e governata al solo scopo di garantirne il benessere materiale e finanziario, allora il paternalismo d’impresa, piacione ma ferreo, risulta un modello perfettamente funzionale.

D’accordo, sì, il neo-nazionalismo affonda le sue radici nella tradizione patriottica in mimetica e fucile. E tuttavia, archiviata l’America neocon e dem paladina della democrazia universale per sostituirvi la parola d’ordine America First, se America significa alla fin fine solo più dollari, l’identitarismo non è che aziendalismo con altri mezzi  (e sotto altre sembianze). Il che fa apparire come patetiche le definizioni buttate lì di un Trump, o di un Musk, come “fascisti”. Il loro unico culto è l’autopromozione dell’ego. Il proprio, anzitutto. E del loro americano ideale, raffigurato come capace (il “merito”). Cioè rapace. Questo loro radicale egoismo di fondo, enfio di intolleranza per le ragioni altrui, o si proietta, con Trump, a livello di nazione, meno guerrafondaia ma non meno sciovinista; o diventa, con Musk e il resto della gang fatturante, un repellente patriottismo aziendale, con le convention traboccanti di entusiasmo obbligato per l’imprenditore guru che fa il pagliaccio sul palco.

Razzismo (sociale, non etnico)

I provvedimenti che hanno costernato di più l’opinione pubblica anti-trumpiana sono le deportations di milioni di immigrati irregolari e l’abolizione dello jus soli. Lo scarto rispetto a Joe Biden e a Barack Obama non è nei rimpatri forzati, in cui semmai si registra un cambio di passo, ma nel secondo, che difatti è stato colpito subito dall’accusa di incostituzionalità da parte di un magistrato (repubblicano). Vedremo quanto questa politica duramente anti-immigrazionista si tradurrà in fatti concreti. In questa sede la domanda è un’altra: come si concilia con le vagonate di preferenze prese da Trump fra ispanici, asiatici, neri e perfino arabi, praticamente un non bianco su tre?

Le ragioni sono tutte più o meno in negativo, cioè più contro la sconfitta Kamala Harris e tutto ciò che rappresentava, che a favore all’universo MAGA (tanto è vero che la candidata democratica ha perso, rispetto al predecessore Biden, 11 milioni di voti, mentre a Trump sono andati gli stessi del 2020). Il risentimento covato verso l’amministrazione Biden per i deludenti risultati del programma anti-inflazione, che nonostante un’economia in crescita ha visto comunque penalizzare le fasce più povere, in cui le minoranze etniche sono percentualmente più presenti. La ripulsa suscitata dalle idee gender e woke. Il senso di tradimento per l’appiattimento dei Democratici su Israele nella carneficina di Gaza. Alle brutte, l’ex immigrato naturalizzato americano ha preferito il repubblicano che promette meno tasse (anzitutto, a dire il vero, per i più ricchi e per le imprese) e gli appare più credibile per difendere la posizione acquisita dalla minaccia dei migranti fuori regola, molto comodi come bassa manodopera, e proprio per questo tenuti finora sotto il ricatto dell’illegalità.

Due considerazioni. La prima. Di sicuro la società statunitense è ancora percorsa, come e per certi versi più di altre società occidentali, dal virus tribale del razzismo biologico (basta farsi un giro e tendere le orecchie nei bar, fucine del meglio e del peggio della plebe, l’appartenenza alla quale è in ogni caso un titolo d’onore, visto che razza di “élites” ci ritroviamo). Tuttavia questo tipo, diciamo classico, di intolleranza per il colore della pelle è cavalcato da Trump, ma non è di Trump. Né ancor meno della sua corte tecno-digitale. La crociata anti-immigrati rimanda più che altro a un razzismo sociale prettamente capitalistico, che vede la società come un mercato e gli stranieri come esercito industriale di riserva. Umani di serie B, ma non per il sangue: per la solita forma mentis economicistica, contabile, tot entrate tot uscite. Cancellare il diritto alla cittadinanza per nascita dei figli di immigrati va perciò inquadrato più come – ci si passi l’espressione – un fermo pesca, motivato dall’urgenza di rispondere all’ansia sociale, condivisa in misura maggiore dai meno abbienti per l’insicurezza generata dal tema dei “confini”. Che poi questo tema sia montato ad arte ingigantendone la percezione a discapito di altri, ingiustizia e diseguaglianza, che ne sono la causa prima, ciò non lo rende meno reale, lungo il bordo col Messico.

Bisogna smetterla allora di usare le parole a capocchia: Trump e super-élite al seguito non sono razzisti o fascisti. Il loro successo è garantito, se continueremo a hitlerizzarli, a sentirci moralmente superiori appiccando loro addosso l’etichetta più facile e a costo zero. Magari non capendo che il Musk scattante nel saluto romano non è preda di nostalgia per il Duce o il Führer, ma è l’esaltato che gioca alla provocazione e comunica da meme vivente – il che, per inciso, è qualcosa di peggio, di molto più subdolo, insidioso e disarmante di un improbabile vero e proprio recupero di stilemi non più funzionali a una narrazione che di marziale deve avere il giusto, cioè quasi nulla.

Grande Sostituzione (della razza umana)

Seconda considerazione: se il dossier immigrazione va inserito nell’ambito dell’economico, ne consegue anche stavolta che bisognerebbe focalizzarsi sull’elemento di contraddizione, si diceva una volta, strutturale. E cioè il fatto che la foga persecutoria a danno dei “non americani” ha motivazioni politiche (il comprensibile bisogno di percepire protetto il confine, totem di importanza non solo simbolica), in oggettivo contrasto con l’altrettanto impellente bisogno occupazionale di disporre di un certo numero di neo-servi della gleba, da ghettizzare nella zona grigia della clandestinità ammessa e tollerata.

Chiamiamolo doppiopesismo dello sfruttatore: da una parte, i servi stranieri sono utili perché servono, così si mantengono compressi i costi del lavoro e si alimenta il fuoco perennemente acceso della guerra fra poveri; dall’altra, vanno trattati come immondizia, polvere da nascondere sotto il tappeto ed eventualmente gettar via, pur di soddisfare urgenze di altro ordine e grado. E anche, a pensar male, perché tutti quei posti di lavoro oggi da loro occupati, i più semplici e dequalificati, saranno i primi a venire risucchiati dalla super-intelligenza terrore prossimo venturo. La razza delle macchine che rimpiazza la razza umana espulsa dal mercato: questa, è la futura “grande sostituzione”. Lo stadio estremo non già del razzismo, ma del binomio costitutivo del Capitale: sfruttamento + alienazione.

Potremmo star qui ad elencarne, di contraddizioni più o meno visibili in questo inizio di era Trump. A cominciare da quella, eclatante, della pietra tombale sul green, che suona come uno schiaffo a Elon Musk la cui Tesla è sinonimo in Occidente di auto elettrica. O passando per quella, un po’ meno evidente, del frego sulla politica woke per la diversità di genere, cambio di rotta che va di traverso a una neo-ortodossia culturale ammannita negli anni scorsi non dalla sola “sinistra”, ma dal capitalismo woke, come ben ha illustrato Carl Rhodes nel suo libro dall’omonimo titolo (a proposito: è emblematico il fatto che lo stesso Musk abbia una figlia transgender che l’ha pubblicamente ripudiato).

Occidente (al tramonto, bye bye atlantismo)

Ma l’antinomia più macroscopica e, dal nostro punto di vista, più vitale e promettente è il ridimensionamento dell’atlantismo e, culturalmente parlando, del concetto di Occidente da parte degli Usa, cuore e centro nervoso del mondo occidentale. Se nell’ultimo decennio l’assetto globale, detto alla grossa, si è diviso a metà, da un lato il blocco imperiale guidato dagli Stati Uniti e dall’altro il cartello dei Brics polarizzato sulla Cina, il Trump 2 si prospetta assai differente dal Trump 1. Ancora una volta, la natura di immobiliarista che bada al sodo, unita questa volta alla forza politica enormemente superiore rispetto al mandato 2017-2, induce il tycoon alla presa d’atto che la Cina non può essere un nemico esistenziale, ma un partner commerciale obbligato.

Per un motivo semplice: Pechino è oggi la prima potenza industriale. Gli americani, indiscutibilmente primi nel digitale, nello spazio e nell’energia, se intendono ancora consumare tutto quel consumano non potranno certo far a meno dei prodotti esteri, a partire da quelli cinesi. È il bieco e sano interesse a costringere gli Usa, la cui capacità produttiva ha parecchie falle, a venire a patti lasciando i toni da guerra fredda per una più duttile diplomazia  mercantile. Con il che si spiega lo spregiudicato uso che Trump vuol fare dei dazi doganali, branditi come una pistola verso chi non si mette sull’attenti. Ad esempio contro l’Unione Europea, se non dovesse imitare gli Usa nello stracciare la tassazione sulle big tech.

In breve, il rude pragmatismo porta Trump a esautorare il rapporto privilegiato che l’America ha da 80 anni con l’Europa nell’Alleanza Atlantica. Di qui l’insofferenza per le spese sul groppone del Pentagono per la Nato, eredità della cortina anti-sovietica che non ha più ragion d’essere da quando è cessata la minaccia sovietica. Alla crisi dell’anacronistico atlantismo va associata la totale indifferenza trumpiana per il pantheon di valori riassumibile nel concetto di “Occidente”. Molto semplicemente, non fa parte del suo orizzonte. Dal momento che non ci ricava nulla di utile, non rientra nel suo schema. Né in quello dei “tecno-patrioti”. A contare, per loro, è la cornice nazionale. Nella visuale americanocentrica, l’entità Occidente è una stratificazione impalpabile. Non c’è nessun Occidente: ci sono soltanto gli Stati. Il cui guinzaglio targato Nato, per l’Europa, non si allenterà ma non sarà più centrale come prima.

Gli europei riceveranno un trattamento differenziato in relazione a quanto si renderanno docili pedine delle strategie di Washington, che sembrano non avere più tabù (tranne uno, il solito: Israele, che al netto dei non idilliaci rapporti fra Trump e Netanyahu, non si tocca). In tale quadro, i periferici Paesi clientes dovranno, come l’Italia di Giorgia Meloni, confermarsi caninamente fedeli. Ma anche su questo occorre capovolgere la vulgata. È inoppugnabile che l’Europa sia la vittima designata dell’appetito di un’America aggressivamente mercantilista: ha una bilancia commerciale in attivo e pingui tesori in capitali e risparmi da drenare. Ma se Germania e Francia non si genufletteranno (occhio alle elezioni tedesche del 23 febbraio), l’assalto statunitense potrebbe provocare un sussulto di reattività, manifestando vivaddio un qualche vagito di minima indipendenza europea.

L’atteggiamento di sprezzante e intimidatorio distacco che viene dalla Casa Bianca, insomma, per il Vecchio Continente potrebbe rivelarsi una buona, non una cattiva notizia. E positivo di sicuro, comunque si voglia analizzarlo, è l’accantonamento di quella fittizia costruzione anti-europea che è stato l’Occidente, landa del tramonto. Si spera definitivo.

Segue a: Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione