Crisi dell’edilizia? È finito lo sballo da Superbonus, cari costruttori

I dati su edilizia e manifattura. Gli allarmi eccessivi. E l'evoluzione (poco considerata) della domanda. Il corsivo Battista Falconi

Gen 29, 2025 - 13:50
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Crisi dell’edilizia? È finito lo sballo da Superbonus, cari costruttori

I dati su edilizia e manifattura. Gli allarmi eccessivi. E l’evoluzione (poco considerata) della domanda. Il corsivo Battista Falconi

 

A gennaio 2025, dopo tre mesi di calo, aumenta la fiducia dei consumatori e delle imprese, secondo l’Istat. L’indicatore è trainato dal manifatturiero e, soprattutto, dalle costruzioni. Siamo contenti, l’Istituto invita “a un più cauto ottimismo”, ma la tendenza non sembra in grado di sovvertire dati di base, negativi e molto concreti. Partiamo proprio dalle costruzioni.

L’Ance presieduta da Federica Brancaccio (nella foto) lancia ripetutamente, l’ha fatto anche ieri, l’allarme per l’edilizia: -5,3% del 2024, un calo che punta a -7% nel 2025. Crisi che rimanda, quasi in toto, al contraccolpo conseguente alla crescita drogata dagli incentivi del superbonus, un’occasione malamente sprecata per la riconversione del settore. Senza esagerare in autolesionismi o sciovinismi eccessivi, una delle peggiori caratteristiche della nostra nazione è infatti l’edificazione eccessiva, abusiva e disordinata, il consumo di suolo, la mancanza di piani regolatori efficaci, la diffusione di patrimonio pubblico e privato inutilizzato, le opere incompiute. Una devastazione che si perpetra da decenni.

Si dice che le pubbliche amministrazioni, specie locali, siano sotto schiaffo della “lobby dei costruttori”, basti l’esempio del classico scambio tra aumento dell’indice edificatorio e realizzazione delle opere di urbanizzazione. Questo però non impedirebbe di stringere un patto per una seria riqualificazione dell’esistente, inclusivo di un ingente programma di abbattimenti, se ci fossero la lungimiranza politica e imprenditoriale necessarie. L’edilizia conta oltre 500 mila imprese, numero eloquente di una frammentazione e dimensione individuale che certo non agevola la pianificazione. Sta di fatto che in Italia il miglioramento del patrimonio edificato pare una mission impossible.

C’è poi un secondo aspetto, collegato a questo, che si estende ad altri settori manifatturieri in crisi: la cecità di fronte a un mercato che ridisegna e riduce fortissimamente la domanda, almeno in Europa e nel mondo cosiddetto avanzato. Servono meno case, perché siamo sempre meno abitanti e perché ce ne sono già troppe. Servono meno vestiti, meno auto, servono meno beni di consumo: nulla di strano se la moda soffre, l’automotive sembra prossimo alla fine, il manifatturiero è in crisi generale.

Quando si fanno questi discorsi si viene accusati di propagandare la decrescita felice, come fosse una colpa. In realtà si tratta di perseguire una vera crescita che compendi esigenze di sviluppo, ricchezza e benessere. Lo stare meglio dovrebbe prevalere su un possesso di beni ormai deperibilissimi, soggetti a obsolescenza programmata e accelerata, che non valgono nulla sul piano dell’investimento. Non a caso, le giovani generazioni puntano sulla condivisione dei servizi, sulla remotizzazione, sulla subordinazione del lavoro ad altre forme di benessere.

Chiaramente per le imprese è più comodo chiedere aiuti, per la politica lo è concederli. La moda ha ottenuto 250 milioni di euro, annunciati dal ministro Urso alla quarta riunione del Tavolo permanente. I dati sono sconfortanti: 60 mila imprese e 600 mila addetti (sempre per dare l’idea della dimensione e frammentazione di questi comparti), produzione calata del 10% nei primi 10 mesi dello scorso anno. Una produzione usa e getta che ha abbattuto durabilità e utilizzo, creando un impatto ambientale devastante. Dell’auto nemmeno vale la pena parlarne, tanto è ormai noto il surreale circolo vizioso che ha portato i cinesi a svolgere nel contempo il ruolo di causa e soluzione del problema, con la complicità dell’ideologia green occidentale.

I dati per ragionare non mancano, si prenda anche solo il RTT index sulla crescita dell’economia italiana elaborato da Confindustria e diffuso a inizio di quest’anno. Eppure restiamo fermi. Prestiamo poca attenzione a quello che cambia, che arriva, che muta, tant’è che non sciogliamo il nodo del lavoro, cioè il rapporto tra offerta e domanda. Siamo impreparati e ci facciamo abbagliare dagli slogan, come con i big tech e l’intelligenza artificiale. Non riflettiamo sulla rivoluzione in corso di sanità, istruzione, editoria, cultura, limitandoci a belle parole da laudatores temporis acti… Non rivolgiamo quasi attenzione a quello che muore, finisce, esaurisce il proprio ruolo, come la manifattura. La fiducia è una cosa seria, ma non sempre basta.