A Homeland abbiamo perdonato tutto, anche la parentesi tedesca

Sin dal suo debutto nel 2011, Homeland si è distinta come una delle serie di spionaggio più innovative e avvincenti del panorama televisivo. Basata sul format israeliano Prisoners of War e creata da Howard Gordon e Alex Gansa, la serie ha saputo mescolare tensione politica, introspezione personale e complessità morale. Homeland esplora in maniera più… Leggi tutto »A Homeland abbiamo perdonato tutto, anche la parentesi tedesca The post A Homeland abbiamo perdonato tutto, anche la parentesi tedesca appeared first on Hall of Series.

Gen 30, 2025 - 02:33
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A Homeland abbiamo perdonato tutto, anche la parentesi tedesca

Sin dal suo debutto nel 2011, Homeland si è distinta come una delle serie di spionaggio più innovative e avvincenti del panorama televisivo. Basata sul format israeliano Prisoners of War e creata da Howard Gordon e Alex Gansa, la serie ha saputo mescolare tensione politica, introspezione personale e complessità morale. Homeland esplora in maniera più che realistica le dinamiche dello spionaggio internazionale nonché le fragilità umane.
Al centro di tutto c’è Carrie Mathison, interpretata magistralmente da Claire Danes, un personaggio straordinariamente complesso, geniale e tremendamente vulnerabile. L’attrice americana per questo ruolo ha vinto due Emmy e due Golden Globe consecutivamente come miglior attrice protagonista.

La caratteristica distintiva di Carrie non è soltanto la sua intelligenza e le sue abilità spionistiche. La sua battaglia contro il disturbo bipolare è un aspetto chiave che influisce profondamente su ogni aspetto della sua vita, personale e professionale. La serie ha ricevuto numerosi riconoscimenti da parte delle associazioni di familiari di persone con malattie psichiatriche e dall’APA, American Psychiatric Association. Homeland si distingue infatti per il modo in cui affronta la malattia mentale trattandola con realismo e sensibilità. Gli autori hanno saputo mettere in luce sia gli aspetti più oscuri sia la straordinarietà che può emergere da una mente che si colloca al di fuori dei parametri convenzionali.

Con una narrazione audace che non ha paura di rischiare, Homeland è riuscita a catturare l’attenzione di pubblico e critica. Ha affrontato temi attuali e controversi con profondità e autenticità. Tuttavia, non tutte le stagioni hanno ricevuto lo stesso livello di consenso. La quinta, ambientata principalmente in Germania, è spesso considerata uno dei capitoli meno riusciti. Ma è davvero giusto definire questa stagione deludente e relegarla a un ruolo marginale nel grande impianto narrativo?
Pur rappresentando più criticità rispetto alle altre, la quinta stagione, in realtà, esprime un momento cruciale nell’arco narrativo della serie. Segnando anche un’ importante evoluzione del suo complesso protagonista.

Un cambiamento di scenario e prospettiva

Carrie in un raro momento di felicità della sua vita
Credits: Showtime

Dopo aver lasciato la CIA alla termine della quarta stagione, Carrie Mathison si trasferisce a Berlino. L’ex agente è determinata a costruire una nuova vita lontana dagli intrighi e dai compromessi morali che hanno segnato il suo passato. Lavora per una ONG, come capo della sicurezza, ponendo le sue capacità strategiche al servizio di scopi più nobili. È la prima volta che la serie esplora una versione più introspettiva di Carrie, concentrandosi sulla sua quotidianità e sul suo bisogno di normalità.

Quando un gruppo di hacker viene fortunosamente in possesso di documenti altamente classificati però, la stabilità di Carrie viene bruscamente interrotta. L’evento, le cui conseguenze per il mondo dello spionaggio sono catastrofiche, innesca una serie di conseguenze che arpionano e trascinano Carrie di nuovo nel vertice dello spionaggio.
Nonostante la decisione di allontanarsi da quel mondo Carrie è costretta a rituffarcisi dentro. Per il suo bene e per quello della figlia. La collaborazione con vecchi alleati come Saul Berenson (Mandy Patinkin) e Peter Quinn (Rupert Friend) non è priva di attriti. E la presenza di nuovi giocatori, tra cui la capo-stazione CIA a Berlino, Allison Carr (Miranda Otto), complica ulteriormente il quadro.

Berlino: il nuovo vecchio palcoscenico dello spionaggio

Il cambio di ambientazione è stato uno dei punti più discussi della quinta stagione di Homeland. La capitale della Germania unificata, storicamente epicentro dello spionaggio internazionale, offre un contesto ricco di simbolismo. Durante la Guerra Fredda la città era divisa dal Muro separando se stessa e il mondo in due poli opposti. Il background cittadino offre perciò un luogo ideale per rappresentare il caos geopolitico contemporaneo, dove i confini tra bene e male sono sempre più sfocati.
Nonostante ciò, l’uso di Berlino come sfondo narrativo ha suscitato parecchie critiche. Se da una parte la città, con la sua atmosfera multiculturale, rappresenta un perfetto microcosmo delle tensioni globali dall’altro pare non sia riuscita a evocare la stessa intensità emotiva delle ambientazioni precedenti. Gli spettatori erano abituati alla calda familiarità di Washington DC o alla tensione palpabile dei teatri di guerra del Medio Oriente. Berlino, invece, con il suo stile architettonico moderno e il suo clima freddo, pare abbia trasmesso un senso di distacco che parte del pubblico ha trovato difficile da accogliere.

La quinta stagione di Homeland, però, è intrinsecamente legata alla città tedesca. Nelle vie di Berlino, nei suoi caffè, si aggirano forze politiche contrastanti. Governi europei e non preoccupati per la propria sicurezza; gruppi terroristici che cercano di destabilizzare l’Occidente; e agenzie di intelligence coinvolte in giochi di potere super segreti. La fuga di documenti non è altro che il fiammifero che accende l’enorme falò degli intrighi, già pregno di combustibile, pronto a bruciare. Non vengono alla luce soltanto le macchinazioni della CIA ma anche la vulnerabilità delle moderne democrazie, simili a giganti dai piedi d’argilla.

La Berlino di Homeland non è solo un sfondo ma un personaggio vero e proprio. Le sue strade, i suoi edifici e persino la sua atmosfera si intersecano con il tema centrale della stagione: il confine sempre più labile tra privacy e sicurezza, tra giusto e sbagliato, tra verità assoluta e relativa. Le ambientazioni, come le suggestive immagini dalla terrazza dell’ambasciata americana che affaccia sulla Porta di Brandeburgo, o le periferie degradate, gli uffici ultramoderni della ONG dove lavora Carrie, incarnano perfettamente questa dicotomia.
Berlino è anche il luogo dove Carrie ha deciso di ricrearsi. Dove ha deciso di crescere la figlia avuta da Brody, Frannie. Quella bambina alla quale ha deciso di dedicare la sua vita per ritrovarsi e reinventarsi. Il luogo dove trovare, finalmente, pace e redenzione. Una redenzione che le viene negata costantemente scatenando i suoi sensi di colpa dovuti alla perenne lotta tra il suo senso di responsabilità e il desiderio di staccarsi completamente dal passato.

I temi della quinta stagione di Homeland

Carrie affronta la sa malattia in Homeland
Credits: Showtime

Rispetto alle stagioni precedenti la quinta rappresenta un cambio di tono netto, repentino. Quasi sperimentale. Mentre le prime erano caratterizzate da un crescendo emotivo derivato dalla tensione personale e quella politica, questa stagione adotta un approccio più riflessivo e, apparentemente, meno coinvolgente. Che sia una scelta voluta o meno questa nuova modalità riflette il disorientamento e l’alienazione di Carrie Mathison, bisognosa di stabilità in un contesto completamente estraneo.
Anche il ritmo narrativo, di solito serrato e qui più frammentato, rispecchia la scelta di raccontare trame multiple sacrificando, in certi momenti, la scorrevolezza della narrazione generale.

Il trafugamento di documenti sensibili che porta alla luce operazioni segrete dela CIA non è altro che il punto di partenza di una complessa rete di temi che riguardano soprattutto la sorveglianza globale, la privacy digitale, il ruolo dei media e, ultimo ma non meno importante, la radicalizzazione. Questo conflitto obbliga lo spettatore a porsi continuamente domande su valori importanti e assoluti come la libertà individuale, quella globale e l’uso indiscriminato dei dati personali. C’è un mondo oscuro, iperconnesso, che la maggior parte delle persone ignora, o immagina distortamente, ma che è in grado di alterare gli equilibri politici e gettare ombre sul ruolo delle istituzioni.

La tecnologia a uso privato e pubblico

L’uso di internet è anche lo spunto con il quale in questa stagione viene affrontata la radicalizzazione che non riguarda soltanto gli atti di terrorismo internazionali ma anche i meccanismi di reclutamento. La stagione, infatti, esplora come le organizzazioni violente sfruttino il web per raggiungere individui vulnerabili da trasformare in strumenti per l’adempimento del loro disegno violento. Seppure accennato viene offerto uno sguardo inquietante sulle dinamiche psicologiche e sociali che alimentano il terrorismo moderno (a questo proposito, se avete fegato, vi consigliamo questa serie).

Infine, questa stagione affronta il ruolo dei media. Attraverso la figura di Laura Sutton (Sarah Sokolovic), giornalista americana ricercata dall’FBI e accolta in Germania, gli autori ci pongono di fronte al ruolo dell’informazione e della sua manipolazione. Laura riceve i documenti della CIA e decide di renderli pubblici. Non le importa della sua incolumità nonostante ammetta di avere paura. La sua vita è sacrificabile rispetto alla verità assoluta che deve trionfare. Ma a che prezzo? E soprattutto, quanto e quando le istituzioni hanno il dovere di distorcere, la verità, per i propri scopi?

Se da un lato questa pluralità di temi dimostra inequivocabilmente la capacità degli autori di confrontarsi con questioni complesse, spinose e stimolanti dall’altro finisce per appesantire la narrazione. La mancanza di un tema dominante che funga da filo conduttore spezzetta la trama che risulta dispersiva e meno incisiva. Gli spettatori si ritrovano immersi in un oceano di argomenti ciascuno dei quali meriterebbe una stagione a sé ma che nell’insieme rischiano di creare soltanto confusione e insoddisfazione.
Questa frammentazione tematica rispecchia, forse volutamente, la complessità del mondo reale. Le questioni globali raramente sono o bianco o nero. Tuttavia è una scelta che ha penalizzato il coinvolgimento emotivo degli spettatori rendendo più difficile al pubblico mantenere una legame profondo con la storia e con i personaggi.

A proposito di personaggi

Carrie e Peter Quinn, un rapporto difficile in Homeland
Credits: Showtime

Alla quinta stagione di Homeland sono mancati anche i personaggi di contorno. La serie, infatti, ha sempre sviluppato i personaggi secondari che circondavano la protagonista creandole una sorta di rete intricata con la quale confrontarsi. Che fossero buoni o cattivi il cast secondario ha contribuito a creare una una forte connessione emotiva con lo spettatore.
Nella quinta stagione non è andata così. Soprattutto per quanto riguarda quei personaggi già conosciuti: Peter Quinn e Saul Berenson.

Quinn, uno dei personaggi più amati della serie, attraversa una evidente fase di profonda vulnerabilità. Durante il briefing a inizio stagione lo vediamo stanco, affaticato. Appesantito da una carriera che lo logora psicologicamente. I suoi superiori decidono di affidagli un incarico leggero, meno stressante. Incuranti delle sue necessità continuano a spremerlo, incapaci di fare altro.
Quella di Quinn è una storyline che viene offerta al pubblico senza approfondirla come andrebbe fatto. Anche a fine episodio, quando Dar Adal (interpretato dal meraviglioso F. Murray Abraham, Salieri nell’Amadeus di Forman) racconta a Carrie come avesse conosciuto e sfruttato la giovinezza di Quinn, ci si rende conto che l’approfondimento che il personaggio meritava non c’è stato. E che la sua macerante lotta interiore, a differenza di quella di Carrie, non viene mai esplicata rimanendo appena in superficie, senza uno sviluppo significativo e dovuto.

Il vecchio saggio e l’amante ferito

A Saul Berenson, invece, è sottratta una delle caratteristiche principali che lo hanno reso uno dei personaggi più complessi e affascinanti di Homeland. Pur rimanendo centrale nella narrazione svanisce del tutto il suo ruolo di punto di riferimento per Carrie. Il loro rapporto, infatti, subisce un drastico deterioramento privando il pubblico di quella dinamica, quasi paterna, fatta di fiducia, affetto, disillusione che aveva sempre arricchito le loro interazioni.
Il rapporto tra Carrie e Saul è sempre stato difficile, segnato da incomprensioni, accuse reciproche. Ma anche di profonda lealtà. Tra loro, nonostante gli attriti, c’è sempre stato un rispetto reciproco che andava oltre il lavoro e che permetteva loro di superare anche le crisi più profonde. Nella quinta stagione, tuttavia, Saul si comporta in modo che risulta ambiguo, quasi meschino. Certamente egoista.

Quando Carrie ha bisogno di aiuto lui glielo nega accusandola di averlo tradito. Non solo non cerca di capire le motivazioni della sua pupilla, come aveva fatto in passato arrivando a giustificarne persino scelte scellerate. Ma la aggredisce verbalmente e l’abbandona nel momento del bisogno. Un atteggiamento inaspettato e in netto contrasto con il Saul delle stagioni precedenti, duro e critico ma capace di riconnettersi sempre con Carrie.
Naturalmente Carrie ha ragione. Saul è costretto a ricredersi (tanto per cambiare...) e ammettere di aver avuto torto (per l’ennesima volta…). Tuttavia, anziché ricostruire il loro legame il suo personaggio adotta un atteggiamento manipolatorio. Nell’ultima puntata ricatta moralmente Carrie per convincerla a tornare a lavorare per la CIA arrivando ad accusarla di essere egoista.

L’ambiguità di Saul è certamente una scelta narrativa che, pur aggiungendo complessità al personaggio, risulta distonica. La figura del vecchio saggio, capace di bilanciare il cinismo del mestiere con un raro senso di umanità, sembra lasciare spazio a un uomo arrabbiato e vendicativo. Non è in grado di riconoscere né tanto meno accettare i cambiamenti di Carrie, la sua crescita personale, le sue necessità risultando più un amante tradito che un padre capace di perdonare.

Ma chi è il vero nemico?

Carrie e Saul
Credits: Showtime

Una delle caratteristiche delle stagioni precedenti di Homeland era la presenza di antagonisti chiaramente definiti. Abu Nazir nella quarta e Nicholas Brody nelle prime tre fungevano da catalizzatori per la tensione narrativa. Figure complesse, capaci di riflettere i dilemmi morali dei protagonisti, questi personaggi erano la perfetta incarnazione del cattivo.
In questa stagione, invece, il nemico è sfuggente, quasi astratto. Non c’è un volto che rappresenti la minaccia principale a cui dare la caccia ma una serie di antagonisti. Anche Allison Carr, il cui ruolo di agente doppiogiochista è intrigante, non rappresenta una vera minaccia.
Una scelta che rispecchia la realtà di un mondo in cui le minacce sono diffuse e anonime ma che in una serie televisiva rende difficile allo spettatore l’identificazione del conflitto narrativo riducendo in maniera notevole l’impatto emotivo. Molta realtà a discapito di una struttura narrativa coinvolgente.

Una parentesi sperimentale e imperfetta, ma necessaria

La quinta stagione di Homeland non è priva di difetti, abbiamo visto. Una ambientazione fredda, un ritmo frammentato, personaggi secondari meno incisivi e l’assenza di un cattivo centrale hanno reso meno coeso questo capitolo. Etichettarla come una stagione deludente, però, sarebbe ingiusto e riduttivo.
La parentesi tedesca rappresenta un momento di sperimentazione, un audace tentativo di affrontare nuovi orizzonti narrativi esplorando temi di grande attualità e rilevanza con un’ottica fresca e, persino, provocatoria. Nonostante le sue imperfezioni la quinta stagione ha cercato di ampliare il mondo Homeland, spingendo oltre i confini della narrazione e aprendo la strada a possibili futuri scenari.

Il risultato è una stagione sottotono rispetto agli standard a cui eravamo abituati ma che rimane importante per il suo coraggio e per il contributo al mosaico complessivo dell’opera. Come sempre, Homeland non si è accontentata di seguire strade sicure, preferendo rischiare con nuove prospettive e tematiche.
Forse non tutto è andato per il verso giusto ma a una serie come Homeland perdoniamo tutto, anche i suoi passi falsi. Perché sappiamo che ogni tentativo, riuscito o meno, arricchisce il racconto di un’opera che, stagione dopo stagione, si è guadagnata un posto nella storia della televisione.

Su Carrie Mathison si potrebbe scrivere un manuale di psicologia

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