“M – il figlio del secolo” è divisivo perché tocca un nervo scoperto
“M - Il figlio del secolo” restituisce un’immagine grottesca, esagerata, ridicola, ma anche molto intima e ammiccante del duce: in un mix tra “Fleabag” e “House of Cards”, due grandi serie televisive recenti, “M” di Joe Wright ci porta così tanto dentro ai pensieri di Mussolini che la rottura della quarta parete è costante, reinventando in chiave postmoderna, e quindi composita, non per forza fedele, e caotica una vicenda storica. L'articolo “M – il figlio del secolo” è divisivo perché tocca un nervo scoperto proviene da THE VISION.
“Ci sono decenni in cui non accade nulla e delle settimane in cui accadono decenni”, dice una famosa frase attribuita a Lenin. Non so dire con certezza se le prime tre settimane del 2025 corrispondano davvero a decenni, in termini di avvenimenti storici, ma di certo non è un periodo che dimenticheremo con facilità. Sono settimane in cui il nostro paese è stato col fiato sospeso per un fatto gravissimo e politicamente molto delicato, ossia la liberazione di una nostra giornalista imprigionata in Iran, Cecilia Sala, e settimane in cui abbiamo visto il tempio dell’immaginario occidentale, Hollywood, bruciare, e settimane in cui abbiamo cominciato a sperare che il conflitto tra Israele e Palestina potesse essere arrivato se non a un punto di pace, quantomeno a quello di una tregua, dopo quindici mesi di massacro a cui assistiamo inermi. E poi, c’è la settimana in cui il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti si insedia alla Casa Bianca, circondato da tutti i multimiliardari del tech, i cosiddetti tycoon, cuore dell’oligarchia statunitense, che si reinventano fedeli trumpiani e che inneggiano a una società in cui bisogna ritrovare una cosiddetta masculine energy, mentre uno degli uomini più potenti del mondo attualmente saluta il pubblico con quello che sembra, inequivocabilmente, un saluto romano.
È interessante notare che, esattamente come le reazioni scomposte e contraddittorie all’esegesi del movimento di Elon Musk che tende il braccio destro per due volte consecutive – il suo portavoce italiano, Andrea Stroppa, su X ha scritto che l’Impero Romano è tornato, salvo poi cancellare il post per correggersi attribuendo il gesto a una neuro divergenza dell’imprenditore –, anche quelle alla serie televisiva M – Il figlio del secolo si è strutturata con lo stesso identico schema. Non è importante determinare se ciò che ha fatto il proprietario di Tesla nonché braccio destro, teso o meno, di Trump sia un riferimento esplicito al nazismo o al fascismo, perché è chiaro che siamo di fronte alla sua ennesima trollata, per dirla con un termine caro al social che ha comprato per plasmare a sua immagine e somiglianza X. L’obiettivo di Musk, in questo presente in cui ogni informazione che abbiamo a disposizione può essere messa in dubbio, nell’era della post-verità, un’era cominciata ormai quasi dieci anni fa con la prima vittoria di Trump, era esattamente quello di farci parlare ininterrottamente di lui e di quello che intendeva comunicare usando uno dei gesti più emblematici e scarsamente fraintendibili del Novecento. Il risultato, come volevasi dimostrare, è esattamente ciò che si aspettava, un fiume di commenti, parole e interpretazioni che ci allontanano sempre più dalla realtà, proiettandoci su un singolo dettaglio che sposta il focus dal fatto che il paese più potente del mondo sia attualmente nelle mani di una persona pericolosa per riporlo sul nostro accapigliarci.
Il modello si replica all’infinito. Sia che si tratti di Bruno Vespa che accusa Cecilia Sala di non essere stata abbastanza riconoscente al governo, sia che si tratti di tutti gli altri macro temi che ci hanno assorbito negli ultimi cinque anni, dal Covid-19 passando per vaccini, conflitti a due passi dalle nostre case e dispute sulla legittimità dell’uso della parola genocidio, il presente sembra la riproduzione in scala globale di un vecchio detto: quando il saggio indica la luna, il cretino guarda il dito. E così, l’uscita di una serie televisiva abbondantemente preannunciata e attesa come quella tratta dal romanzo di Antonio Scurati, già vincitore dello Strega ma soprattutto oggetto di una polemica che rientra in questa categoria polarizzante del contemporaneo lo scorso anno, quando non ha potuto leggere il suo monologo in Rai per il 25 aprile, si incasella in un processo per cui tutte le attenzioni si focalizzano ai due poli opposti. In questo caso, con M abbiamo da un lato chi grida al capolavoro, senza se e senza ma, e con il compito di riportare in auge l’antifascismo o un semplice risveglio di coscienze – come se fossero le serie televisive ad avere questo compito, e non il mondo reale – e dall’altro chi ne ha approfittato per sfoggiare la classica retorica del fascismo come fenomeno morto, sepolto e soprattutto risolto, al punto da ridicolizzare il protagonista Luca Marinelli che ha osato esternare un suo disagio etico nel vestire i panni di Benito Mussolini. Tra questi ultimi, stranamente, troviamo anche Ignazio La Russa, nostro attuale presidente del Senato, nonché storico detentore di un busto di Mussolini, giusto per confermare la vulgata secondo cui in Italia, dal 1945 in poi, qualsiasi traccia di quel ventennio non solo è sparita ma non ha lasciato alcun tipo di eredità ideologica e politica. Del resto, basta guardare il simbolo del partito che è al governo.
Da un punto di vista “seriale”, se così possiamo dire, il caso di M ha ben poco a che vedere con le polemiche che lo hanno investito. Si tratta infatti di un precedente piuttosto inedito per i prodotti italiani, che già da tempo avevano messo in scena la storia di Mussolini – pensiamo per esempio al bellissimo Vincere di Mario Martone – ma mai con uno stile e un investimento in termini tecnici così ambiziosi. M, infatti, si configura come una sorta di iper-rappresentazione della storia del fascismo, una rivisitazione quasi fumettistica e steampunk dei fatti che vanno dal 1919 al 1925, liberamente ispirati dal romanzo di Scurati. Oltre alla colonna sonora composta da Tom Rowlands, metà dei Chemical Brothers, che conferisce un’atmosfera incalzante e adrenalinica al racconto, tutto in M si muove vorticosamente come nelle rappresentazioni futuriste. Luca Marinelli, fisicamente stravolto per il ruolo e ben allenato all’accento romagnolo, nonché a un modo di parlare che abbiamo imparato a conoscere con i filmati e gli audio dell’epoca, restituisce un’immagine grottesca, esagerata, ridicola, ma anche molto intima e ammiccante del duce: in un mix tra Fleabag e House of Cards, due grandi serie televisive recenti, M di Joe Wright ci porta così tanto dentro ai pensieri di Mussolini che la rottura della quarta parete è costante. Le scenografie sono oscure, il clima da interregno gramsciano avvolge tutti i personaggi, nomi e cognomi che abbiamo imparato sui libri di storia – e non altrove, si spera – e che compongono un affresco kitsch e ritmato degli albori del ventennio. Sembrano tutti un po’ cosplayer, un po’ caricature, da Donna Rachele a D’Annunzio, ma credo che, a conti fatti, l’obiettivo di questa serie fosse esattamente questo, ossia reinventare in chiave postmoderna, e quindi composita, non per forza fedele, e caotica una vicenda storica, senza che questa rappresentazione abbia il dovere di insegnare, dato che per quello, finché ancora resiste, dovrebbe esserci la scuola pubblica che di ore di storia ne contiene già molte. Dato tutto ciò per assodato, è naturale che, come per ogni cosa che guardiamo che abbia una cifra estetica molto forte e precisa, ci si possa entusiasmare o infastidire, a seconda dei propri gusti.
Allora perché, dal momento in cui è uscita su Sky, M è diventata un terreno di battaglia culturale e politico, come se da un attore ci dovessimo aspettare altro che interviste in cui parla di come si è sentito a interpretare un ruolo o da uno sceneggiatore rivendicare le proprie scelte stilistiche? Le risposte a questa domanda sono molteplici, e sono tutte figlie del contesto storico in cui M ha preso vita. Una prima interpretazione del perché questa serie abbia generato tanto rumore, tutto legato ai messaggi che vorrebbe mandare più a ciò di cui è fatta, potrebbe essere in ciò che lo storico Anton Jäger definisce iperpolitica: nel presente, dopo una fase di post-politica degli anni Novanta, e una di anti-politica degli anni Zero, viviamo in un momento in cui tutto è molto più politicizzato di come poteva essere dieci o venti anni fa. In questo senso, anche in una serie televisiva, così come succede per ogni cosa di cui fruiamo, deve esserci un segnale politico esplicito; le celebrità si devono schierare, i film devono dire da che parte stanno, i politici devono dire che cosa guardano e cosa ascoltano. Chiaramente, a questa iper-politicizzazione del reale, non corrisponde una maggiore coscienza collettiva o coinvolgimento, dal momento che poi a votare vanno pochissime persone, ma solo una impostazione del discorso pubblico, figlia anche della disintermediazione, del nostro spostamento su internet e della sovrabbondanza di informazioni, vere o false, a cui siamo sottoposti ogni giorno e del fatto di doversi pubblicamente esporre su tutto, come se fosse un dovere e non un modo per aumentare i tempi di permanenza sulle piattaforme che detengono proprio quei tizi presenti alla cerimonia di Trump.
Un’altra spiegazione al perché di un tale caso attorno a M che credo conviva con quella precedente, è che a cento anni dal ventennio fascista non siamo di fronte al rischio che quella cosa, così com’era un secolo fa, ritorni, ma siamo ancora in uno stato di elaborazione e di reinterpretazione dei fatti che, periodicamente e con particolare forza nei momenti di crisi, risale a galla. Il tema del fascismo e delle sue varianti postmoderne, tra neo-fascismi, nostalgie e altre configurazioni, combacia perfettamente con quel senso di ritorno a una supposta gloria passata su cui fa leva il motto stesso della campagna di Trump, Make America Great Again. L’idea che esista un passato in cui le cose sono andate meglio e l’obiettivo del presente sia riportare quello stato alla ribalta, come se esistessero dei bottoni di comando sulla linea temporale in cui l’uomo è collocato che gli consentano di fare avanti e indietro, è tra i più grandi malintesi, nonché truffa demagogica, con cui abbiamo a che fare oggi, in un Occidente sempre più spostato verso l’estrema destra e con sempre più sbandierata nonchalance. In questa ottica, una serie su Mussolini, accurata, caricata o fedele che sia, preme il pedale di un tasto a dir poco dolente, perché quintessenza di un sentimento collettivo di insoddisfazione che ha radici ben più profonde di quelle che i grandi leader della destra attuale chiamano in causa. C’è una scena in M in cui Mussolini, tra le tante volte in cui guarda in camera, si rivolge a noi per dirci Make Italia Great Again, un riferimento piuttosto esplicito degli sceneggiatori, Stefano Bises e Davide Serino, che riporta il piano del racconto sulla contemporaneità. Non è tanto fondamentale determinare se quello di Musk fosse un vero saluto nazista o se quelle di Fratelli D’Italia siano origini post-fasciste; piuttosto, e su questo M ha toccato un nervo scoperto, c’è da capire in che modo questi elementi di legame con il passato siano strumentali per la costruzione di un futuro che, come è chiaro anche nella semplice reazione a un prodotto per la televisione, ha come obiettivo quella di dividere il mondo in pro e contro, tifoserie, schieramenti contrapposti, uno contro l’altro. Non sarà lo squadrismo degli anni venti del Novecento, ma di certo ci obbliga a stare in squadre, persino quando guardiamo una serie tv.
L'articolo “M – il figlio del secolo” è divisivo perché tocca un nervo scoperto proviene da THE VISION.