Lettera a Gabriele Guzzi
Caro Gabriele, la tua silloge Un volto da un vuoto (Pequod) mi ha fatto comprendere quanto la poesia venga da un altrove e si nutra di altro che di sola […]
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Caro Gabriele,
la tua silloge Un volto da un vuoto (Pequod) mi ha fatto comprendere quanto la poesia venga da un altrove e si nutra di altro che di sola letteratura. Credo sia, questo, un libro legato a un cammino religioso, di inabissamento e risalita, dove ogni parola è misurata, e ogni verso è inciso lentamente nella memoria animica. “Prima di dire una parola/Ho bisogno di molto scavare,/Di molto cavare/Da me, tutto il mio odio//…”. È interessante tu vada in direzione opposta rispetto ai dettami del nostro tempo, che chiedono paratassi, brevitas, e minuscole. Tu inizi ogni verso con la maiuscola, e perciò ti leghi alla tradizione. Ti lasci pervadere e chiedi una convocazione: “Invocare Dio/È ricevere un volto che duri/Come una terra da ereditare//…”, deponi dunque le armi della mera ragione, del mero esercizio di stile, proprio di tanta poesia contemporanea, per raggiungere il dunque, per raggiungere la ragione senza ragione del poetare.
Credo che tu legga più classici che contemporanei, che tu non voglia cedere all’ansia – in certi casi finanche angoscia – del nuovo, e ciò fa della tua opera una perla preziosa. Le perle però simboleggiano le lacrime, una serenità raggiunta a colpi di nudo dolore, una vita nuova divenuta alternativa indispensabile rispetto a un’altra che si è desiderato oltrepassare. Lo sguardo rivolto ai non visti è l’incastro perfetto tra interiorità e esteriorità, quello sguardo non è possibile se non si fanno i conti con l’alterità che ci abita. “Faccio il lavoro più antico del mondo:/Il povero.//Mi trascino sui viali senza un soldo/Con il palmo della mano aperto/Attendo, come la terra con la pioggia.//Non ho nulla con me./Cerco solo un uomo ricco/Che si vuole fare un po’ più povero/Per me, moltiplicando/La sola ricchezza che dura://Quella che non possiede.”.
Che ci sia un lavoro spirituale profondo lo dimostra ogni singolo verso, ciò che sorprende è che questa silloge sia stata scritta, come mi accennavi, tra l’adolescenza e i vent’anni. Dove il tempo è stato afferrato e conservato, maturando in così giovane età: “Bisogna rallentare per vedere/Tutte le sfumature del mondo./Bisogna rallentare per vedere/Il corpo di Dio.//Non c’è eucarestia nella fretta.//Allora, mi faccio liquido obbediente./Contemporanea diviene la parola/Vivente, quella più elementare.//…”.
Pervade tutta l’opera il convincimento di una definizione metafisica dei ruoli: “Solo il padre celeste/Sana il padre terrestre.”, dove è la Sacra Famiglia a dare senso alla famiglia fisica, non esiste nulla di meramente materiale.
Credo che questa tua silloge mostri in primo luogo il campo di una interminabile battaglia, cui forse io risponderei bandiera bianca, mentre tu invece combatti fino in fondo portando sulle spalle il peso della metà invisibile del cosmo. “Chi non è stato scartato/Non può salvare./Sappilo./Solo ciò che residua dà la misura/Della purezza, come la feccia/nei vini.//Solo l’ultimo/Può farsi primo perché è materia/Prima – da sempre//Di ogni vera costituzione.”.
Talvolta ammiro disarmata chi abbia preso posizione sul mondo, sulla vita, qualsiasi posizione, e tu sei tra questi; sento l’ardore della tua lotta, della tua fede. A me resta ancora il chiarore della luce marina, una passeggiata solitaria prima del buio, sospesa tra due dimensioni, come se il sole non dovesse mai calare e mai sorgere. Ti osservo da tale prospettiva intermedia, e ti chiedo se la profondità abissale della discesa possa mai trasmutarsi in ascesi.