Il mix tra groove, spiritualità e piacevole malinconia: intervista ai Savana Funk

Intervista ai Savana Funk: post esibizione al Sziget Festival di Budapest, raccontano il loro approccio e le loro influenze L'articolo Il mix tra groove, spiritualità e piacevole malinconia: intervista ai Savana Funk proviene da Boh Magazine.

Gen 26, 2025 - 13:13
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Il mix tra groove, spiritualità e piacevole malinconia: intervista ai Savana Funk

I Savana Funk sono un trio bolognese composto da Aldo Betto alla chitarra, Blake Franchetto al basso e Youssef Ait Bouazza alla batteria.

Il loro suono è una commistione di generi, che va dal funk al blues, dal rock psichedelico ad irresistibili ritmiche afrobeat.

Il loro ultimo album si chiama Ghibli, è uscito a metà ottobre scorso e li ha portati a suonare sui palchi di tutta Italia grazie ad un’identità ben precisa, che attinge da culture e sonorità differenti che si amalgamano e ci restituiscono un progetto strumentale solido ed estremamente apprezzabile.

La loro massima espressione è rappresentata dall’esibizione live: i tre suonano con un’alchimia speciale, una padronanza dello strumento di altissimo livello e una capacità di coinvolgimento rara per un gruppo a cui bastano tre elementi per scatenare e far ballare dal primo all’ultimo spettatore.

Li abbiamo incontrati al termine del loro live sul Lightstage del Sziget Festival di Budapest, un traguardo importante per la band e per tutto il nostro paese. Tanta, tantissima energia sprigionata dal palco e ricambiata sotto di esso, tra fan di vecchia data e passanti da tutto il mondo che, incuriositi, si sono fatti trasportare da un vento nuovo, che arriva da lontano ma soffia forte su tutto il corpo. Il risultato ti tiene con gli occhi incollati alla loro sinergia sul palco ma soprattutto mai fermo, merito di un groove incessante.

La breve ma intensa chiacchierata è stata piacevole e mi ha portato a scoprire il punto di vista di musicisti esperti, anche rispetto a dinamiche apparentemente lontane. Buona lettura.

Wooow ragazzi, che groove! Davvero complimenti. Che sensazioni avete avuto, com’è andata?

Blake: è andata benissimo! Il pubblico era carichissimo, ha ballato, c’erano sorrisi ovunque. Abbiamo sentito l’energia e abbiamo cercato di restituirla al meglio.

E ci siete riusciti alla grande! Io so che comunque non è la prima che vi trovate a suonare all’estero, e non è neanche la prima volta in Ungheria. Cosa significa però rappresentare l’Italia al Sziget? Che tappa è del vostro percorso?

Youssef: Diciamo che noi siamo rappresentanti del mondo. Poi è logico che l’Italia è il paese che ci ha fatto conoscere e unire, però già noi di base ci sentiamo multiculturali, non abbiamo un confine ben definito. Voglio dire, lo vedi anche dalle nostre facce…

Infatti a proposito di questo, la vostra musica è una commistione di generi ma appunto soprattutto di culture. C’è però anche qualcosa di Bologna, quantomeno nel vostro approccio nel suonare insieme?

Aldo: A Bologna sicuramente c’è tantissimo, è una città di grande scambio, che in qualche maniera racchiude molte energie ed in generale è più sperimentale della media. C’è più freschezza e anche voglia di rischiare. Lo si sente proprio, se vai in giro nei club senti cose che non sentiresti altrove. Non è un caso che molti cantautori e anche la stessa scena hip hop italiana partano da Bologna.
Noi in qualche modo siamo figli di tutto ciò, ma al di là della musica è proprio la possibilità di incontrarci e accogliere il tipo di persone come noi.

Parlando invece della vostra musica, recentemente la versione Donkey Studio di Ghibli è stata inserita nella nuova compila del Cafe Del Mar di Ibiza…

A: Eh sì, siamo stra orgogliosi!

Tra l’altro potrebbe benissimo fare da colonna sonora a quell’iconico posto. Volevo chiedervi in primis se (anche) secondo voi il brano potrebbe essere il manifesto del progetto Savana Funk, e poi quale sia stato il valore aggiunto di Giovanni Tamburini ai fiati.

A. Intanto salutiamo Giovanni, che è un caro amico e che conosciamo veramente da quando era un ragazzino di 15 anni, ce lo siamo coccolato fin dal principio.
Che dire, lui è un talento pazzesco e sono sicuro che nei prossimi anni ci regalerà tanta bella musica.

Per quanto riguarda Ghibli, sicuramente è una parte importante del nostro suono. Io la definisco la piacevolezza della malinconia, in quelle note c’è racchiuso tutto questo aspetto. Però è anche vero che nella nostra musica c’è anche tanto groove, e in altri brani quel concetto viene espresso in un’altra maniera.

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Album Ghibli dei Savana Funk, uscito il 14 ottobre 2022.

Infatti parlando di voi (e finalmente con voi) non si possono non citare le influenze provenienti dall’Africa. Se diamo uno sguardo al panorama pop mondiale queste vibes sono arrivate a colorare anche progetti dal peso specifico commerciale molto alto. In Italia invece cosa manca per portare questi suoni al mainstream?

A: Io innanzitutto ti dico che apprezzerò sempre Lorenzo (Jovanotti, ndr) che una volta ha portato in TV a Che Tempo Che Fa sia Bombino che una leggenda come Tony Allen, mostrandoli di fatto alle masse.
Lorenzo ha sempre avuto questo occhio molto ampio per la musica e un occhio di riguardo per queste sonorità, promuovendo la cultura anche attraverso il suo Jova Beach Party, dove ci ha tra l’altro invitati più volte a suonare.

A: Poi è vero, altri artisti fanno più fatica. La nostra è una scena un po’ più provinciale, e poi i testi non aiutano. Ad esempio con la nostra metrica e con il nostro linguaggio tutto ciò fa veramente fatica ad incastrarsi. Nel senso, noi facciamo strumentale quindi riusciamo a catturare quell’essenza che intendo, ma se inizi già a pensare di cucirgli sopra determinate metriche e testi non lo so, è come se non suonasse più afro, non so come dire…

Y. Abbiamo fatto un esperimento con Willie (Peyote, ndr) che è riuscito bene però…

A. Certo, perchè lì abbiamo preso alcuni brani suoi e li abbiamo riarrangiati, è stata una bella cosa.

A proposito: com’è stato suonarci insieme? Come i vostri mondi si sono potuti incontrare sul palco?

Y. Diciamo che è stato un gran bell’esperimento anche per noi, perchè comunque era una cosa nuova collaborare con un cantante di quello spessore e che avesse dei brani già conosciuti. Trovare la maniera di mantenere il nostro suono, con tutte le nostre contaminazioni, e riuscire a renderlo nei suoi brani è stato oltre che bello estremamente gratificante. Ci tenevamo molto a mantenere la nostra identità ma allo stesso tempo a trovare una giusta comunicazione insieme. Secondo me è stato super riuscito.

A. E poi abbiamo scritto anche delle cose insieme, appositamente per i live: mash up, inediti, edit ecc.

Rimanendo in ambito rap e dintorni ma tornando a Bologna e allo strumento…voi conoscete anche Mr. Monkey, giusto?

Caspita, Matteo è stato mio allievo per tanti anni! A parte che è bravissimo a suonare ed ha un intuito incredibile, ma poi quando ho visto dei video con lui sul palco l’ho subito chiamato per complimentarmi perchè far vedere ai ragazzini di 17 anni che la chitarra esiste e si può portare sul palco anche in quei contesti è una gran cosa, ed è tutt’altro che scontato. E poi produrre è il suo mestiere, ha proprio il naso: 3 anni fa mi fece ascoltare delle cose dicendomi guarda che tra 3 anni questo spacca, e poi guarda com’è andata con Giuse The Lizia.

Per approfondire: biografia di Mr. Monkey

Figata! Chiudiamo il cerchio tornando in Africa. Sappiamo quanto le scene local siano una fucina di idee e talenti incredibile, basti pensare alla Nigeria per l’Afrobeat o al Sudafrica per l’Amapiano ultimamente. Voi vi ritrovate in una scena o in un paese in particolare? Avete una reference precisa rispetto a ciò che significa l’Africa per voi?

B. Eh, domandone.

Y. Io credo che la nostra forza sia il fatto che siamo riusciti a portare noi stessi, a volte senza neanche saperlo bene, è stata un po’ una ricerca. Prima siamo partiti in un modo, poi piano piano abbiamo trovato il nostro suono, ma alla fine la nostra unicità credo sia quella di portare ogni singola parte di noi e anche della nostra infanzia, noi cresciuti in posti completamente diversi.

Non ve l’ho chiesto infatti, che origini avete?

Y. Io sono un berbero, del Marocco.

B. Io per metà del Ghana.

A. La sensazione di diversità degli africani che fanno musica è dovuta al fatto che è come un’emanazione dell’essere, non è una roba commerciale. Cioè, i suoni che poi vengono inseriti nelle produzioni vengono in secondo, terzo, quarto livello, ma in primis è una musica pensata, composta, suonata e performata per un altro motivo. Del tipo sono fatto così, ascolta chi sono. Punto e basta. Non c’è l’intro, il ritornello dopo 1 minuto ecc. E quindi quando senti quel tipo di spiritualità (per ricevere la quale devi avere il cuore aperto) ti unisce.

Per questo in un certo senso mi chiedevo: perchè il suono latino, che pure arriva da culture importanti come quelle sudamericane, viene riproposto facilmente mentre l’afro no?

A. Siamo sempre lì. Si tratta di spiritualità.

Grazie mille ragazzi!

A. Grazie a te!

Ora che fate, vi godete un po’ il festival?

B. Boh, stasera pensavo di andare a sentire Adam Beyer.

Apperò!

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