Il dolore sa quello che fa. Intervista a Joan As Police Woman

Joan Wasser non deve essere certo una persona scaramantica. È un tranquillo venerdì 13, in centro a Milano; nella hall dell’hotel la vedo subito su un divanetto, alle prese da stamattina con il suo press day italiano: decine di interviste da 30 minuti l’una, senza quasi una pausa. Arrivo nel tardo pomeriggio e la trovo, prevedibilmente, impeccabile, mentre sfodera il suo ampio sorriso. Joan Wasser è una persona empatica, lo capisci da come ti guarda, e dal fatto che la prima cosa che ti chiede è: “Come stai?”. E non lo fa per pura cortesia, ma come se le importasse davvero. Potresti giurare che è stanca morta, eppure si preoccupa di com’è andata la tua giornata. Sembra avere ancora voglia di chiacchierare, mentre mangia le sue liquirizie e beve acqua minerale. Siamo qui per parlare di Lemons, Limes and Orchids, il suo decimo, bellissimo lavoro. Dodici tracce che sono un condensato di mestiere: “Ero pronta a fare un album che mettesse veramente in risalto la mia voce. Le basi sono state registrate come una volta, con me che cantavo dal vivo insieme alla band”. Un disco che è pieno di realismo e di speranza, dove la cifra stilistica è l’intensità. Umanità, memoria, verità, lotta, tristezza, amore e controllo, amore e perdita: un album che racconta sentimenti universali con uno sguardo del tutto singolare e una profondità inusitata, spaziando come di consueto tra i generi, dall’art-pop al funk, dal jazz all’ambient, alle atmosfere in pieno stile Motown. Lei può: Joan Wasser sa perfettamente cosa fare e come farlo. La sua musica è emotiva, ma anche solida: “Oh Joan, what is to be done?”. Joan Wasser è una persona che pensa e sente tanto, ma soprattutto è una persona che fa. Cominciamo da una cosa divertente che ho trovato nel tuo comunicato stampa. Ho letto che hai definito Lemons, Limes and Orchids il disco più “sexy” che tu abbia mai fatto. Ho sorriso, ma quando poi l’ho ascoltato non ho potuto che essere d’accordo. Secondo te perché è così sexy? (ride) Sì, esatto, è una cosa che mi ha detto una mia cara amica, e ha divertito molto anche me. Probabilmente perché oggi sono molto rilassata e a mio agio; dopo aver fatto dieci album penso di non avere nulla di cui preoccuparmi. Credo che ci sia ampiezza, spaziosità in questo disco: si prende il suo tempo. Le mie parti vocali sono molto intime. E tutto questo fa in modo che suoni così. Ogni volta che intervisto una musicista, mi viene spontaneo chiederle (è una specie di deformazione, perché sono molto sensibile al tema), se abbia trovato o trovi tuttora difficoltà interamente legate al suo genere. Kim Gordon ci ha scritto anche un libro, Girl in a Band. Cosa significa per te essere un’artista donna nell’industria musicale? Devo leggere quel libro, assolutamente. Ovviamente mi agevola il fatto di non essere parte di una band: io sono una cantautrice, faccio la mia musica. Quindi sono io la referente, i giornalisti non hanno il mio Thurston Moore a cui fare le domande serie, devono necessariamente parlare con me. Questo è il punto di partenza. È anche vero che per un po’ ho fatto parte di band con altri tre o quattro ragazzi all’inizio, nei primi anni ’90, e ogni volta che andavamo a fare un soundcheck, tutti pensavano che fossi la fidanzatina di qualcuno di loro. Tutto questo è cambiato profondamente. Anche la presenza femminile nell’industria musicale è sensibilmente aumentata: abbiamo sempre più donne che fanno le tecniche del suono, le produttrici, e sempre più donne sono entrate in band, anche ai fiati o alla batteria (tradizionalmente strumenti molto maschili). Il progresso si muove molto lentamente, e prima che avvenga un vero cambiamento culturale ci vorrà tempo, ma questo progresso io l’ho visto dai ’90 a oggi. Non è completo, ma è stata fatta molta strada.  Quando ho fatto il mio primo disco solista avevo 36 anni, e avevo raggiunto una maturità sufficiente per poter promettere a me stessa che qualunque cosa avessi fatto, l’avrei fatta solo e unicamente come volevo. Ovviamente non ha mai senso farlo in qualunque altro modo, ma per fortuna ero grande abbastanza da sapere come affrontare qualcuno che, per esempio, mi chiedesse di posare in bikini. Sapevo già come volevo che fossero le cose, e mi sento molto grata di non aver iniziato a scrivere le mie canzoni prima. Perché a vent’anni non so davvero cosa avrei fatto. Joan As Police Woman, foto di Paola Kudacki (2024) Ogni volta che ascolto un disco, mi viene spontaneo immaginare la situazione ideale in cui potrei godermelo meglio: mi faccio domande del tipo “è un disco da prima mattina, un disco da tramonto in riva al mare, un disco da giornata di pioggia? È un disco estivo o un disco invernale?”, e via dicendo. Forse è una sciocchezza, ma io funziono così. Il tuo nuovo album mi suona notturno, da ascoltare mentre fuori fa freddo, ma tu sei in un posto caldo. Forse perché è così intimo e delicato. Sono curiosa di sapere se sei d’accordo Adoro tutto ciò! È abbastanza incredibile quello che dici, perché effett

Gen 26, 2025 - 16:34
 0
Il dolore sa quello che fa. Intervista a Joan As Police Woman

Joan Wasser non deve essere certo una persona scaramantica. È un tranquillo venerdì 13, in centro a Milano; nella hall dell’hotel la vedo subito su un divanetto, alle prese da stamattina con il suo press day italiano: decine di interviste da 30 minuti l’una, senza quasi una pausa. Arrivo nel tardo pomeriggio e la trovo, prevedibilmente, impeccabile, mentre sfodera il suo ampio sorriso. Joan Wasser è una persona empatica, lo capisci da come ti guarda, e dal fatto che la prima cosa che ti chiede è: “Come stai?”. E non lo fa per pura cortesia, ma come se le importasse davvero. Potresti giurare che è stanca morta, eppure si preoccupa di com’è andata la tua giornata.

Sembra avere ancora voglia di chiacchierare, mentre mangia le sue liquirizie e beve acqua minerale. Siamo qui per parlare di Lemons, Limes and Orchids, il suo decimo, bellissimo lavoro. Dodici tracce che sono un condensato di mestiere: “Ero pronta a fare un album che mettesse veramente in risalto la mia voce. Le basi sono state registrate come una volta, con me che cantavo dal vivo insieme alla band”. Un disco che è pieno di realismo e di speranza, dove la cifra stilistica è l’intensità. Umanità, memoria, verità, lotta, tristezza, amore e controllo, amore e perdita: un album che racconta sentimenti universali con uno sguardo del tutto singolare e una profondità inusitata, spaziando come di consueto tra i generi, dall’art-pop al funk, dal jazz all’ambient, alle atmosfere in pieno stile Motown. Lei può: Joan Wasser sa perfettamente cosa fare e come farlo. La sua musica è emotiva, ma anche solida: “Oh Joan, what is to be done?”. Joan Wasser è una persona che pensa e sente tanto, ma soprattutto è una persona che fa.

Cominciamo da una cosa divertente che ho trovato nel tuo comunicato stampa. Ho letto che hai definito Lemons, Limes and Orchids il disco più “sexy” che tu abbia mai fatto. Ho sorriso, ma quando poi l’ho ascoltato non ho potuto che essere d’accordo. Secondo te perché è così sexy?

(ride) Sì, esatto, è una cosa che mi ha detto una mia cara amica, e ha divertito molto anche me. Probabilmente perché oggi sono molto rilassata e a mio agio; dopo aver fatto dieci album penso di non avere nulla di cui preoccuparmi. Credo che ci sia ampiezza, spaziosità in questo disco: si prende il suo tempo. Le mie parti vocali sono molto intime. E tutto questo fa in modo che suoni così.

Ogni volta che intervisto una musicista, mi viene spontaneo chiederle (è una specie di deformazione, perché sono molto sensibile al tema), se abbia trovato o trovi tuttora difficoltà interamente legate al suo genere. Kim Gordon ci ha scritto anche un libro, Girl in a Band. Cosa significa per te essere un’artista donna nell’industria musicale?

Devo leggere quel libro, assolutamente. Ovviamente mi agevola il fatto di non essere parte di una band: io sono una cantautrice, faccio la mia musica. Quindi sono io la referente, i giornalisti non hanno il mio Thurston Moore a cui fare le domande serie, devono necessariamente parlare con me. Questo è il punto di partenza. È anche vero che per un po’ ho fatto parte di band con altri tre o quattro ragazzi all’inizio, nei primi anni ’90, e ogni volta che andavamo a fare un soundcheck, tutti pensavano che fossi la fidanzatina di qualcuno di loro. Tutto questo è cambiato profondamente. Anche la presenza femminile nell’industria musicale è sensibilmente aumentata: abbiamo sempre più donne che fanno le tecniche del suono, le produttrici, e sempre più donne sono entrate in band, anche ai fiati o alla batteria (tradizionalmente strumenti molto maschili).

Il progresso si muove molto lentamente, e prima che avvenga un vero cambiamento culturale ci vorrà tempo, ma questo progresso io l’ho visto dai ’90 a oggi. Non è completo, ma è stata fatta molta strada.  Quando ho fatto il mio primo disco solista avevo 36 anni, e avevo raggiunto una maturità sufficiente per poter promettere a me stessa che qualunque cosa avessi fatto, l’avrei fatta solo e unicamente come volevo. Ovviamente non ha mai senso farlo in qualunque altro modo, ma per fortuna ero grande abbastanza da sapere come affrontare qualcuno che, per esempio, mi chiedesse di posare in bikini. Sapevo già come volevo che fossero le cose, e mi sento molto grata di non aver iniziato a scrivere le mie canzoni prima. Perché a vent’anni non so davvero cosa avrei fatto.

Joan As Police Woman
Joan As Police Woman, foto di Paola Kudacki (2024)

Ogni volta che ascolto un disco, mi viene spontaneo immaginare la situazione ideale in cui potrei godermelo meglio: mi faccio domande del tipo “è un disco da prima mattina, un disco da tramonto in riva al mare, un disco da giornata di pioggia? È un disco estivo o un disco invernale?”, e via dicendo. Forse è una sciocchezza, ma io funziono così. Il tuo nuovo album mi suona notturno, da ascoltare mentre fuori fa freddo, ma tu sei in un posto caldo. Forse perché è così intimo e delicato. Sono curiosa di sapere se sei d’accordo

Adoro tutto ciò! È abbastanza incredibile quello che dici, perché effettivamente il disco è stato registrato tra Natale e Capodanno del 2023, faceva molto freddo, noi eravamo su a Woodstock, a Nord di New York, in questo posto bellissimo, circondato dai boschi, era meraviglioso ma fuori si gelava. Invece in studio si stava benissimo, eravamo al caldo. Quindi la tua intuizione è perfetta.

La domanda di prima mi serviva anche a chiederti qual è il tuo momento preferito per comporre. Hai bisogno di silenzio e quiete, o le idee ti vengono mentre sei nel bel mezzo di qualcosa: al supermercato, per strada, in treno o in aereo?

Dipende. Può succedere nei posti più disparati. Normalmente aiuta molto essere in un luogo tranquillo. L’ultima canzone del disco, ma in realtà anche qualcun’altra, le ho scritte durante i soundcheck. Questo perché ogni pianoforte su cui suono mi dà delle sensazioni diverse. Quindi capita che a volte mi metta a suonare qualcosa che sul mio piano non suonerebbe così. In generale comunque non è tanto il luogo, ma il momento in cui mi trovo. Dove sono con la mia mente. Devo essere consapevole, concentrata. Il più delle volte, comunque, succede di notte, al mio pianoforte. E sì: ho bisogno di calma e silenzio. Ma può succedere anche in altri modi, ecco.

Full-Time Heist è una canzone sulla verità e sulla facilità con cui può essere manipolata. Il tema della manipolazione della verità è un argomento più che mai attuale: pensiamo alle fake news che Trump continua a diffondere impunemente, o a tutto ciò che si nasconde dietro la falsa perfezione dei social media. Quando è successo che abbiamo perso il gusto della verità? Il bisogno di verità?

Meno comunichiamo faccia a faccia gli uni con gli altri, più diventiamo folli. Pensi di dover guardare queste cose sul tuo telefono che non hanno nulla a che fare con te, e voglio dire, è completamente folle! Quando sei in un gruppo di persone, hai molte meno probabilità di incorrere in queste forme di dissociazione, perché devi necessariamente interagire, sei ancorato alla realtà. Non ci sono filtri che ti fanno sembrare un cartone animato. E la differenza tra realtà e finzione diviene molto più chiara e tangibile. La tecnologia non è il male, ma non bisogna staccarsi dalla realtà. I social media possono davvero connettere le persone, la loro creatività, le loro idee, ma spesso finiscono col diventare solo dei contenitori di rabbia e frustrazione. E ho sempre la sensazione che questa rabbia trovi una collocazione sbagliata: le persone non dovrebbero sfogarla lì, ma dovrebbero rivolgerla semmai alla classe politica, la stessa che proprio loro hanno votato.

Long for Ruin è un brano molto profondo, che parla degli esseri umani come se fossero gli artefici della distruzione della nostra società. A cosa pensavi in particolare mentre lo componevi? A un evento specifico, una specifica situazione, o si tratta di una meditazione generale sul tempo che stiamo vivendo?

Ogni giorno leggo le notizie. Tre quotidiani ogni mattina. Devo sapere cosa sta succedendo. Mi sento impotente, ma devo sapere. Ovviamente le buone notizie non ce le danno, leggiamo solo quelle preoccupanti. La canzone non si riferisce a qualcosa di specifico, è assolutamente rivolta alla situazione generale, alla condizione in cui siamo. Gente che ammazza altra gente, persone che, attraverso il loro voto, continuano a dare potere a dei fuori di testa. “People have the power”, ma in realtà quel potere che abbiamo non lo usiamo. Forse c’è un istinto suicida nella specie umana. Eppure io resto un’ottimista. Non c’è spazio per il pessimismo. Il pessimismo semplicemente chiude la porta, ma per me tutte le porte dovrebbero restare aperte. Potresti attraversarne una che alla fine non è quella giusta, ma almeno l’hai scelta. Il pessimismo è paura. Lo capisco, perché essere ottimisti è spaventoso.

Mi ha colpito molto la centralità della voce, che naturalmente è sempre stata un pilastro delle tue composizioni, ma qui è ancora più evidente. C’è anche una canzone intitolata Remember the Voice. È stato qualcosa di casuale o deliberato?

Generalmente, ogni disco che faccio è un po’ in risposta al precedente. Prima di Lemons, Limes and Orchids ho pubblicato nel 2021 The Solution is Restless, con Tony Allen e Dave Hokumu. Quel disco senza la pandemia non ci sarebbe stato. Avevo così tanto tempo, ho fatto quaranta diversi arrangiamenti di chitarre, così tante parti vocali. Ed è stato così divertente, l’ho adorato. Ma stavolta ho voluto fare le canzoni nel modo più semplice possibile. Quindi sì, è stata una scelta assolutamente deliberata.

“Tributo alla resistenza”, ho letto che questa potrebbe essere una buona definizione del tuo disco, come suggerisce anche il titolo di uno dei brani (Tribute on Holding On). Che cos’è per te la resistenza?

Resistere dall’essere irrispettosa, irresponsabile, resistere dal nascondersi, dal non schierarsi per qualcosa che ritieni giusto, dal non chiedere scusa se sai di aver sbagliato. Dobbiamo resistere perché siamo fortunati, perché siamo nati in questa parte di mondo, perché non dobbiamo porci un problema di sopravvivenza. Per noi il mondo è una specie di paradiso, ma per tanti altri no. Bisogna essere grati, e ascoltare. Anche quando pensi di non doverlo fare, anche quando pensi di sapere già tutto: quello è il momento in cui devi ascoltare di più. Perché potrebbe esserci un aspetto che ti è sfuggito, una prospettiva che non hai considerato o che non ti è ancora del tutto chiara. Resistere dal dare giudizi. Più passano gli anni, più divento consapevole di tutto ciò. Quando non giudico qualcuno mi sento meglio. E mi sento più intelligente. Imparo di più. Quando ero una ragazzina punk-rock, pensavo di essere così aperta mentalmente. Ora mi dico “What?” Non sapevo neanche cosa significasse.

In questo disco troviamo la tua consueta attitudine a spaziare in maniera disinvolta tra i generi (pop, funk, jazz, ambient, trip-hop). So che è sempre una domanda impossibile, ma se dovessi riassumere le tue principali influenze in una formula (o uno stile, o un riferimento), quale sarebbe?

(ride) Sì, ti confermo che è una domanda impossibile!! Per tutta la mia vita ho ascoltato e amato così tanta musica, ed è per questo che quello che faccio suona così. Io cerco sempre di fare musica che possa essere senza tempo. Quanto è bello quando ascoltiamo alla radio una vecchia canzone che conserva intatta la sua energia e ci emoziona ancora nello stesso identico modo? Ecco, questo è quello che cerco di fare.

Tra le infinite cose meravigliose che fai, c’è l’esperienza dell’insegnamento al Clive Davis Institute of Recorded Music della New York University. Puoi dirci qualcosa di questa inedita “Joan as Teacher”? Che tipo di insegnante sei?

Non sono un’insegnante tradizionale, faccio più un’attività di mentoring. Ho delle classi individuali, solo con senior, e metto interamente a loro disposizione la mia esperienza, il che vuol dire non solo ascoltare quello che compongono, correggergli un passaggio che non funziona, suggerirgli un bridge che potrebbe andare bene, no, io fornisco anche consigli sulla produzione, su come registrare un disco, su come sentirsi a proprio agio sul palco, su come mettere insieme una band. Mi usano come vogliono. E mi piace che sia così, voglio che sia così. Lo trovo divertente.

Ogni album di un artista è una sorta di messaggio in codice per gli ascoltatori. Oppure, a volte, ci sono più messaggi, ma ce n’è sempre uno che prevale sugli altri e in qualche modo li comprende tutti. Qual è il tuo messaggio per il mondo racchiuso in Lemons, Limes and Orchids?

Sono terribile nel rispondere a questo tipo di domande! Ma durante la prima intervista che ho fatto, con John Schaefer a WNYC, mi è rimasta impressa una cosa: mi ha detto che questo disco poteva essere sintetizzato nelle parole del brano Lemons, Limes And Orchids: “Pain Knows What To Do”. Mi è piaciuto molto, perché di solito quando sentiamo la parola “dolore” sobbalziamo, è qualcosa che non vogliamo, che a tutti i costi vorremmo evitare, ma sappiamo che è impossibile: tutti ne faremo esperienza. Non c’è niente che insegni come il dolore. Il dolore è quella cosa che vuoi cambiare, che ti costringe a prendere atto, a fare attenzione a quel sentimento, per poterlo superare. Il dolore può creare l’amore più grande. Può disegnare un percorso che non credevi nemmeno possibile. Creare una comprensione del mondo che nemmeno pensavi esistesse.