Dizionario minimo anti-Trump (1)

Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione Occidente. Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite. Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà sono […]

Gen 28, 2025 - 17:22
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Dizionario minimo anti-Trump (1)

Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/1: dal tecno-cretinismo a Luigi Mangione

Occidente. Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite. Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà sono state travolte dalla valanga trumpiana. Sarebbe da riscrivere un intero vocabolario ermeneutico, dopo  la conquista della Casa Bianca da parte di The Donald. I primi 100 decreti immediati – uno “tsunami”, li ha definiti il suo ex stratega Steve Bannon – danno un quadro già abbastanza chiaro dell’onda d’urto che si abbatterà non solo sugli Stati Uniti e sul mondo ma anche, più in profondità, sui nostri paradigmi.

Qui mi proverò nel tentativo di una guida minima, pubblicata in tre parti in rigoroso disordine alfabetico. Un abbozzo di critica del pregiudizio riguardante alcune verità ormai consunte. Una critica, in parte, che è anche salutare autocritica. Di seguito, la prima parte.

Democrazia (rappresentativa delle élites, fino a un certo punto)

Non è più vero, o non necessariamente, che il voto alle elezioni sia un passaggio residuale, poco incisivo e non dirimente, rispetto alle decisioni che piovono dall’alto, nelle cabine di regìa dove si fanno e si disfano i veri giochi. Il potere, beninteso, passa regolarmente di mano in mano entro ristrette cerchie che si spartiscono il controllo delle forze istituzionali, economiche, militari e culturali. La paretiana circolazione delle élites è sempre viva e prospera, in ossequio alla legge ferrea dell’oligarchia. Ma se il consenso delle urne esprime un vincitore netto, leader incontrastato della propria fazione che riflette su di sé un campo di egemonia  largamente diffusa, allora il rito elettorale può fare la differenza.

È l’identikit di Trump, che tornato da trionfatore nello Studio Ovale con una legittimazione fortissima, è oggi nelle condizioni di parlare, come vedremo, da pari a pari perfino con l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk. Capiamoci bene: la democrazia cosiddetta rappresentativa resta rappresentativa di minoranze che, per altro, diventano sempre più minoritarie, a guardare il calo costante di partecipazione ai seggi (si pensi all’Italia, dove ormai a votare va meno della metà degli aventi diritto). Insomma, a rigore, una collaudata truffa per “metterlo nel culo alla gente con il suo consenso” (Massimo Fini). Ma non se e quando l’asticella delle preferenze assume proporzioni tali da fornire un mandato sufficientemente preoccupante per gli equilibri in seno agli apparati (burocrazia, esercito, magistratura, servizi di sicurezza).

E difatti la sfida immane che Trump dovrà ora affrontare sarà proprio quella di svellere dai gangli amministrativi tutti coloro che, nello “Stato profondo”, possono opporre resistenza al nuovo corso. Di qui il programma di licenziamenti statali, che non risponde tanto a una logica di “efficientamento”  (come ha fatto Musk quando ha comprato Twitter, tagliando l’80% del personale), bensì più che altro a una necessità di spoil system politico e imposizione ideologica. Tradotto: cacciare i funzionari non allineati e alleggerire drasticamente l’organico della pubblica amministrazione per spianare il terreno per fare largo al settore privato. O meglio: ai lupi famelici dell’Oligarchia che attornia il neo-presidente. Un assalto alla diligenza pubblica che non è solo economico, è anche culturale. “Lo Stato non serve, siamo noi a far funzionare le cose”: questo è il messaggio. Più che liberismo, affarismo su vasta scala.

A ogni modo, la lezione da trarre per chi, vivaddio, trumpiano non è, ricorda il buon vecchio machiavellico Lenin: anche il ludo cartaceo può costituire un’arma. Non decisiva, magari, questo no. Ma utile, certamente sì.

Liberismo (o della miseria dell’anti-liberismo parolaio)

Fino ad oggi se avessimo dovuto spiegare cosa si debba intendere con l’aggettivo “liberale” (o liberista, nell’uso italiano) avremmo risposto, seguendo l’insuperato Karl Polanyi, all’incirca così: non solo protezione della libertà e dei diritti dell’individuo dai tentacoli dello Stato mediante il libero fluire di persone, merci e idee, ma innanzitutto il piegare lo Stato alla creazione delle migliori condizioni possibili affinché il mercato, vale a dire chi domina il mercato, estenda la sua dinamica liquefatrice a qualsiasi radicamento, barriera e legame in ossequio alla crescita illimitata e puramente quantitativa che lo sospinge e alla produzione di denaro a mezzo di denaro che lo anima. In parole povere, il liberalismo non è che l’intelaiatura filosoficamente legittimante del capitalismo, che brandisce l’ideale della libertà individuale per far girare all’infinito il vortice della produzione di valore.

Ora, questo bignamino in linea teorica rimane valido, ci mancherebbe. Ma nel new deal trumpista, e soprattutto muskista, rispetto alla semplice brama di profitto emerge un’ambizione ulteriore, di natura non strettamente economica. Da un lato, il nuovo presidente ha l’esigenza, tutta politica, di rilanciare la classica industria manifatturiera per mantenere l’impegno di ridare lavoro alla classe operaia inghiottita dalla de-industrializzazione. Ecco il motivo per cui, per dire, la Stellantis del nostro baldo John Elkann si precipita a investire su suolo americano 5 miliardi di dollari. Veri, non d’aria fritta come nelle ripetute promesse fatte al nostro Paese. Non è Trump che favorisce Elkann, è Elkann che deve ingraziarsi Trump.

Certo, direte voi: trattasi di normalissimo scambio di vantaggi. Ma se sempre Trump nel frattempo butta sul piatto 100 miliardi, destinati a diventare 500 nell’arco di quattro anni, per varare un maxi-piano di finanziamento pubblico sull’intelligenza artificiale (Stargate), e se è vero com’è vero che ampliare l’IA significa rendere superflue masse crescenti di lavoratori umani, se ne deduce che la molla politica (garantire occupazione) deve quanto meno convivere con gli appetiti economici (il business dei produttori di robot). Le due spinte sono oggettivamente in contraddizione. Per carità, una contraddizione che ha punteggiato la storia del capitalismo, che da sempre, di fatto, è un mix di iniziativa/rendita privata e statalismo/interventismo di governo. Ma qui c’è l’elemento inedito di una divaricazione potenzialmente dirompente: come farà Trump a salvare la ragion politica della sopravvivenza stessa di intere fasce di manodopera, quando l’interesse economico presserà per estendere la robotizzazione intelligente che di anno in anno accelera verso un possibile punto di non ritorno?

Longtermismo (o dell’infantilismo al potere)

Ancora più destabilizzante è il tratto, a ben guardare, non del tutto logico o, in certa misura, diseconomico dei sogni di gloria di Musk e della mentalità di certi oligarchi ora in gran spolvero. Non ci si riferisce tanto ai miliardi finora polverizzati nel lancio di razzi per lo sbarco su Marte con Space X, ma alle fantasie che ne popolano la mente. Come un caricaturale riccone mezzo pazzo da fumetto, Musk su Marte vorrebbe aeronavi ognuna con 100 coloni che paghino ciascuno 200 mila dollari per colonizzare il pianeta rosso e fondarvi una “civiltà autosufficiente”.

Dice: ma in realtà su Marte chissà quale cornucopia di ricchezze minerarie c’è da estrarre, altro che fumetti. Molto probabile. Tuttavia, la giustificazione “ideale” rimanda a quella corrente di pensiero, denominata longtermismo, che teorizza il sacrificio dei bisogni presenti sull’altare di un’umanità felice in un futuro a lungo, lunghissimo termine. Se si prende nota che stiamo parlando di una teoria nata nel salotto buono delle università d’élite di Stati Uniti e Gran Bretagna, teste d’uovo profumatamente pagate in qualità di consulenti di OMS, Banca Mondiale e World Economic Forum, l’odore di frescaccia sale immediatamente alle nari. Ciò nonostante, queste sono suggestioni che a quei livelli fanno presa, e come insegna Gramsci, a furia di sottovalutare il peso delle coperture ideologiche, si finisce per non capire le realtà che coprono. Specialmente se, come parrebbe per Musk, con l’aggravante della cieca buona fede.

Ora, nella messianica visione ultra-terrestre abita un’eccedenza di irrazionalità palese legata proprio al fattore tempo. Nel calcolo economico, infatti, è una componente essenziale. Se io scaravento miliardi e miliardi nella voragine dei costi letteralmente stellari che un investimento del genere, a scadenza indefinita, comporta, non sto facendo l’imprenditore: sto facendo il profeta. Stando a quel che sostiene chi dice di conoscerlo bene, Musk non pensa in termini di decenni, ma di secoli. Ciò non ha nulla a che vedere con l’economia. Per lo meno non se vogliamo continuare a darle un senso umano, di misurabile rapporto tra volontà e risultati. Qui siamo oltre Bill Gates e le sue amorevoli (e pelose) campagne di vaccinazione per l’Africa. Siamo a oltre George Soros, che fra una speculazione e l’altra foraggia democraticissimi colpi di Stato (Euromaidan a Kiev, 2014). Siamo oltre pure Jeff Bezos, che desertifica il commercio fisico ai quattro angoli del globo con la capillarità e ipervelocità della sua Amazon.

Musk, che con la sua Neuralink patrocina impianti sperimentali di microchip nel cervello, insegue fantasmi di onnipotenza: superare la limitatezza della superficie terrestre, sfidare l’umana imperfezione, mettere in mora la variabile Tempo. Se l’andazzo si confermerà questo, il prossimo movimento rivoluzionario dovremo intestarlo a un proposito squisitamente reazionario: restare umani, meravigliosamente troppo umani. Così da conservare nella psiche collettiva la facoltà di evolvere a una condizione mentalmente adulta, il cui connotato, com’è noto, corrisponde a riconoscere i propri limiti. Va bene che l’intera vicenda moderna e postmoderna, di cui il post-umanesimo è un’evoluzione, è consistita nello svincolarsi inarrestabile dall’idea stessa del Limite. Ma a maggior ragione, allora, si dovrebbe reagire con orrore, e in ostinata direzione contraria, anti-moderna, al delirante misconoscimento di ogni senso dell’umano.

Tecnica (che prevale sull’Economia)

E anche di ogni senso del ridicolo. Perché quanto a deliri, non c’è solo il Musk habitué della ketamina (“il mio consumo è nell’interesse degli investitori”). Si prenda un Marc Andreessen, inventore del primo browser, oggi a capo del fondo speculativo A16z. È l’autore del “Techno-Optimist Manifesto”: un farneticamento in piena regola. Rullo di tamburi: “che la spirale ascendente del tecno-capitalismo proceda per sempre”. Fanfare spiegate: “non esistono problemi materiali che non possano essere risolti con più tecnologia”. Un sacerdote della fede, molto americana, nel progresso artificiale che però almeno ha il pregio dell’onestà e della chiarezza, essendo la sua una piccola summa del pensiero, pardon, del pensierino tecno-cretinista da Silicon Valley.

E che dire di Peter Thiel, capo dell’azienda di analisi dati Palantir? L’ex socio di Musk ai tempi di PayPal (la chiamano PayPal Mafia, infatti) si è comprato un intero pezzo di Nuova Zelanda per trincerarcisi dentro in caso di cataclismi, ma per lo meno ha il buon gusto di ammettere, senza girarci intorno, che il libero mercato non esiste perché esistono, ed è giusto che esistano e che si espandano, i grandi oligopoli. Inoltre tiene pure a far sapere, per gradire, che la “libertà e democrazia non sono compatibili”. Perla rivelatoria, direi. Se vogliamo, son tutti personaggi sintomatici di uno schieramento che si preannuncia molto lontano dall’immagine abituale, anche recente, dell’imprenditore liberista che manovra il politico-pupazzo, o osteggia il burattino a libro paga del concorrente. L’avanguardia trumpiana non si accontenta di fare affari.

Musk fa l’influencer guastatore per conto del governo, aizzando direttamente i suoi 202 milioni di follower su X, il social di sua proprietà, con pesanti ingerenze negli affari interni degli Stati in cui ci sia qualcuno della destra amica da sostenere (da noi la Meloni, in Germania Alice Weidel dell’Afd, in Inghilterra invece se l’è presa con il premier laburista Starmer). Thiel, molto più silenzioso, ben lungi dallo stile piacione dei suoi colleghi liberal , quando apre bocca spara bombe come quelle sopra ricordate. Andreesen fa il venture capitalist e contemporaneamente se la dà da intellettuale, con esiti modesti ma significativi. Il succo è che a questi signori non interessa solo succhiare denaro e ingrassarsi. Puntano a qualcosa di più: riplasmare i comuni punti di riferimento e il sistema stesso, portando alle estreme conseguenze il processo di assoggettamento dell’Economia alla Tecnica, in base a quell’adagio (che un po’ sa di legge di Murphy) secondo cui “quello che l’uomo può fare, prima o poi, lo farà”. E non obbedendo più, attenzione, alla razionalità tipicamente economica in virtù della quale ciò che conviene fare è quel che dà un guadagno calcolabile, punto e stop.

Con i futuristi in acido a stelle e strisce, al potere va la (peggiore) fantasia. Una miscela di Orwell (“1984”) e Huxley (“Brave New World”). Ma è proprio grazie alle fantasie imbambolanti, ideali per quel bambinone mal cresciuto che è l’americano medio, che difficilmente si materializzerà mai un Luigi Mangione che prende di mira e accoppa uno di questi santoni del paradiso (fiscale) in Terra.