Assediati dai rifiuti tessili
C’era una volta il tailleur con cui si affrontavano più stagioni, il cappotto dal taglio intramontabile da cui era difficile separarsi, come fosse un vecchio amico, o il maglione che resisteva inalterato allo stress della lavatrice. È preistoria. Ora il fast fashion, la moda «usa e getta» ha preso in ostaggio gli armadi, stipandoli di abiti che durano pochi mesi. La vita della moda si è accorciata, complice anche il commercio online, i cassetti «esplodono» e allora cosa si fa se bastano un paio di mesi per decretare il de profundis anche della gonna più desiderata? I più virtuosi usano gli appositi cassonetti gialli, altri si rivolgono ai mercatini dell’usato mentre la gran parte dei consumatori butta tutto nella raccolta indifferenziata. L’emblema finale di questo spreco è il deserto di Atacama in Cile, con le sue discariche a cielo aperto come colline, di vestiti ammassati, molti dei quali ancora nelle confezioni, spazzati dal vento e bruciati da roghi dolosi.Per porre rimedio a questo scenario, l’Europa ha varato una normativa che dovrebbe cambiare le cose, almeno nell’Unione. Dal primo gennaio, infatti, è entrato in vigore, a livello comunitario, l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili. L’obiettivo, attraverso il riciclo, è dare nuova vita alle fibre tessili, contrastando l’abitudine di gettare i vestiti, anche in buono stato, nel cassonetto dell’indifferenziata. Ogni Comune deve predisporre contenitori specifici per la raccolta degli indumenti e chi continuerà a smaltire abiti in modo non conforme alla normativa, rischia multe che possono arrivare a 2.500 euro. Anche se bisognerà vedere come agiranno i controlli. L’Italia, in realtà, aveva tagliato il traguardo in anticipo, affrontando il problema dei rifiuti tessili già nel 2022 con un decreto legislativo, ma a causa di nodi burocratici da sciogliere, il tempo guadagnato si è perso per strada. Secondo l’Ispra, proprio nel 2022, il tessile ha rappresentato solo lo 0,8 per cento del totale dei rifiuti raccolti separatamente. Questi sono passati dalle 133 mila tonnellate del 2017 alle 160 mila del 2022 e tra il 2021 e il 2022, anno di introduzione dell’obbligo, la quantità di rifiuti tessili nella differenziata è salita in modo marginale, passando, in media, da 2,6 a 2,7 chili pro capite all’anno. Un vero flop confermato anche negli anni successivi. Se guardiamo a Milano, ai dati relativi al 2023 (gli ultimi disponibili), la raccolta pro capite è stata di 3,2 chilogrammi per abitante. Una quota davvero irrisoria se confrontata con la media Ue (4,4 chili) ma anche con la quantità di rifiuti tessili prodotti, che in Europa si stima sia di circa 12 chili a persona.Come mai? Sia il decreto italiano sia quello della Ue sono incompleti, ovvero manca la definizione della responsabilità estesa al produttore (Epr) che Bruxelles ha ancora allo studio e che il nostro Paese aveva previsto con il Dlgs 116/2020, ma non è stata mai attuata. Nel 2023 il decreto attuativo era stato abbozzato con la regolamentazione per gli operatori del tessile e si era prefigurata anche l’istituzione di un centro di coordinamento, il Corit. Ma non è stato mai approvato e così tutto è rimasto sulla carta per i problemi emersi durante la stesura, sulle modalità di raccolta e i soggetti interessati e, verosimilmente, in attesa delle decisioni della Ue. Al ministero dell’Ambiente però sono ripresi i lavori, avviando la consultazione tra le associazioni di settore, i consorzi e i Comuni per arrivare alla definizione di un testo entro la prossima estate e all’istituzione ufficiale dei consorzi per la raccolta e il riciclo tessile, disciplinandone l’attività. In Italia esistono sei consorzi (Retex.Green, Re-Crea, Cobat Tessile, Erp Italia Tessile, Erion Textile e Unirau) che stando alla bozza di decreto dovrebbero coordinarsi attraverso il Corit. La soluzione del problema è urgente. Ogni italiano smaltisce appena 2,7 chili di tessuti all’anno quando, invece, nello stesso arco di tempo, l’immissione sul mercato di prodotti di abbigliamento, calzature e tessuti per la casa tocca i 23 chili a persona. È evidente che i conti non tornino. Nel territorio dell’Unione europea, appena l’1 per cento degli indumenti viene riciclato. «Il ritardo di Bruxelles nell’emanazione della direttiva Epr, ovvero sulla responsabilità dei produttori, è stato determinato dal pressing delle lobby delle categorie interessate» afferma Fabrizio Tesi, presidente dell’Associazione tessile riciclato (Astri). «Occuparsi di un capo d’abbigliamento dall’origine al fine vita è costoso e servirebbero contributi comunitari spalmati sull’intera filiera». Tesi poi spiega che «con il riciclo è possibile rimettere sul mercato il 60 per cento del prodotto». Ma affinché il processo funzioni, servirebbe anche una cultura sul «fine vita» degli indumenti. L’esperto sottolinea che «la definizione di rifiuto tessile comprende un’insieme eterogeneo di prodotti. Oltre agli abiti usati include anche altre categorie di scarto,
C’era una volta il tailleur con cui si affrontavano più stagioni, il cappotto dal taglio intramontabile da cui era difficile separarsi, come fosse un vecchio amico, o il maglione che resisteva inalterato allo stress della lavatrice. È preistoria. Ora il fast fashion, la moda «usa e getta» ha preso in ostaggio gli armadi, stipandoli di abiti che durano pochi mesi. La vita della moda si è accorciata, complice anche il commercio online, i cassetti «esplodono» e allora cosa si fa se bastano un paio di mesi per decretare il de profundis anche della gonna più desiderata? I più virtuosi usano gli appositi cassonetti gialli, altri si rivolgono ai mercatini dell’usato mentre la gran parte dei consumatori butta tutto nella raccolta indifferenziata. L’emblema finale di questo spreco è il deserto di Atacama in Cile, con le sue discariche a cielo aperto come colline, di vestiti ammassati, molti dei quali ancora nelle confezioni, spazzati dal vento e bruciati da roghi dolosi.
Per porre rimedio a questo scenario, l’Europa ha varato una normativa che dovrebbe cambiare le cose, almeno nell’Unione. Dal primo gennaio, infatti, è entrato in vigore, a livello comunitario, l’obbligo della raccolta differenziata dei rifiuti tessili. L’obiettivo, attraverso il riciclo, è dare nuova vita alle fibre tessili, contrastando l’abitudine di gettare i vestiti, anche in buono stato, nel cassonetto dell’indifferenziata. Ogni Comune deve predisporre contenitori specifici per la raccolta degli indumenti e chi continuerà a smaltire abiti in modo non conforme alla normativa, rischia multe che possono arrivare a 2.500 euro. Anche se bisognerà vedere come agiranno i controlli. L’Italia, in realtà, aveva tagliato il traguardo in anticipo, affrontando il problema dei rifiuti tessili già nel 2022 con un decreto legislativo, ma a causa di nodi burocratici da sciogliere, il tempo guadagnato si è perso per strada. Secondo l’Ispra, proprio nel 2022, il tessile ha rappresentato solo lo 0,8 per cento del totale dei rifiuti raccolti separatamente. Questi sono passati dalle 133 mila tonnellate del 2017 alle 160 mila del 2022 e tra il 2021 e il 2022, anno di introduzione dell’obbligo, la quantità di rifiuti tessili nella differenziata è salita in modo marginale, passando, in media, da 2,6 a 2,7 chili pro capite all’anno. Un vero flop confermato anche negli anni successivi. Se guardiamo a Milano, ai dati relativi al 2023 (gli ultimi disponibili), la raccolta pro capite è stata di 3,2 chilogrammi per abitante. Una quota davvero irrisoria se confrontata con la media Ue (4,4 chili) ma anche con la quantità di rifiuti tessili prodotti, che in Europa si stima sia di circa 12 chili a persona.
Come mai? Sia il decreto italiano sia quello della Ue sono incompleti, ovvero manca la definizione della responsabilità estesa al produttore (Epr) che Bruxelles ha ancora allo studio e che il nostro Paese aveva previsto con il Dlgs 116/2020, ma non è stata mai attuata. Nel 2023 il decreto attuativo era stato abbozzato con la regolamentazione per gli operatori del tessile e si era prefigurata anche l’istituzione di un centro di coordinamento, il Corit. Ma non è stato mai approvato e così tutto è rimasto sulla carta per i problemi emersi durante la stesura, sulle modalità di raccolta e i soggetti interessati e, verosimilmente, in attesa delle decisioni della Ue. Al ministero dell’Ambiente però sono ripresi i lavori, avviando la consultazione tra le associazioni di settore, i consorzi e i Comuni per arrivare alla definizione di un testo entro la prossima estate e all’istituzione ufficiale dei consorzi per la raccolta e il riciclo tessile, disciplinandone l’attività. In Italia esistono sei consorzi (Retex.Green, Re-Crea, Cobat Tessile, Erp Italia Tessile, Erion Textile e Unirau) che stando alla bozza di decreto dovrebbero coordinarsi attraverso il Corit. La soluzione del problema è urgente. Ogni italiano smaltisce appena 2,7 chili di tessuti all’anno quando, invece, nello stesso arco di tempo, l’immissione sul mercato di prodotti di abbigliamento, calzature e tessuti per la casa tocca i 23 chili a persona. È evidente che i conti non tornino. Nel territorio dell’Unione europea, appena l’1 per cento degli indumenti viene riciclato. «Il ritardo di Bruxelles nell’emanazione della direttiva Epr, ovvero sulla responsabilità dei produttori, è stato determinato dal pressing delle lobby delle categorie interessate» afferma Fabrizio Tesi, presidente dell’Associazione tessile riciclato (Astri). «Occuparsi di un capo d’abbigliamento dall’origine al fine vita è costoso e servirebbero contributi comunitari spalmati sull’intera filiera». Tesi poi spiega che «con il riciclo è possibile rimettere sul mercato il 60 per cento del prodotto».
Ma affinché il processo funzioni, servirebbe anche una cultura sul «fine vita» degli indumenti. L’esperto sottolinea che «la definizione di rifiuto tessile comprende un’insieme eterogeneo di prodotti. Oltre agli abiti usati include anche altre categorie di scarto, come i tessili per l’arredo e i tessili di casa come lenzuola e asciugamani, spesso difficilmente riutilizzabili o riciclabili. E per questo una quota consistente finisce nell’indifferenziata. L’introduzione della responsabilità estesa al produttore potrebbe facilitare la raccolta e avviare un percorso virtuoso». Fermo restando, però, la consapevolezza del consumatore, senza la quale, come sempre, le leggi non sono mai abbastanza.