Matteo Renzi e il giorno della marmotta

Proprio come nel famoso film, Renzi vorrebbe tornare daccapo, ai lontani fasti. Ma invano: rimane ancora e ancora a percentuali minime. Bastano a battere la destra dice lui. Chi si accontenta... «La fase zen in cui noi mangiamo fango e sputiamo miele è finita». I duemila sostenitori, il manipolo di parlamentari e la tonificante colonna sonora degli Alphaville in sottofondo: I Want to Be Forever Young. Il sempre giovane Matteo Renzi ha deciso di celebrare i cinquant’anni con la solita sobrietà: sul palco di un teatro fiorentino, annunciando che nulla sarà uguale a prima.L’ex Rottamatore rinasce moralizzatore, sperando di far dimenticare i tormentati trascorsi. Gli prudono i polpastrelli: e posta come un dannato contro il governo. Per non parlare di Palazzo Madama. Si definiva sommessamente uno scornato «senatore semplice di Scandicci». Adesso è un capopopolo senza popolo. Travolto dall’insolito furore, teorizza audace: «Meloni ha paura che il nostro due per cento sia decisivo per la sconfitta della destra». Capito? De-ci-si-vo. Che fine farebbe l’opposizione senza il suo strepitoso apporto? Resta l’insanabile problemone. Voti, seggi, proiezioni. Nemmeno il più ardimentoso sondaggista si spinge oltre. Italia Viva, malriuscita creatura renziana, si approssima ormai a percentuali che ricordano i prefissi telefonici di assolate cittadine del Sud. Pena l’estinzione, dunque, non resta che svillaneggiare. Per rinascere come in quel film: Il giorno della marmotta. Lì un meteorologo rivive sempre la stessa giornata. Qui un ex premier cerca di tornare invano ai lontani fasti. Dopo adeguate celebrazioni, raggiunto il mezzo secolo di vita, assodata la marginalità, Matteo ricomincia da dove ripartì. Era il settembre 2019. Passata una lunga stagione a Palazzo Chigi, l’ex segretario del Pd decide di fondare Italia Viva. «Avremo centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti» annuncia. «Non saremo un partito del cinque per cento» assicura. «Magari» risponderebbero oggi i quattordici parlamentari rimasti: un terzo di quelli che, oltre cinque anni fa, lo seguirono speranzosi. L’ultimo a fare ciao ciao con la manina è stato il turboeconomista Luigi Marattin, deluso dall’ultimo intento del leader: far rifiorire, nel campo largo, l’appassita Margherita. È lo stesso proponimento del sempreverde Romano Prodi, che ha persino individuato il suo possibile erede: Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell’Agenzia delle entrate. Matteo diventa quindi il maranza di Palazzo Madama, pronto a fare esplodere le casse durante ogni seduta. Intanto, Italia Viva perde anche l’unico invidiabile record conquistato in questi anni: fare incetta di finanziamenti, tra imprenditori e supporter. Nel 2022 aveva raccolto quasi 2,3 milioni di euro. Nel 2023 s’è invece fermato a 497 mila euro: meno 78 per cento. Attenzione, però. Non si tratta solo di un banale ritorno alle origini, come un Toninelli qualsiasi. Il piano è ben più articolato. Renzi è l’inarrestabile fustigatore, dimentico dei notevoli trascorsi. Ne ha per tutto il governo. Taccia di opacità e nefandezze chiunque gli capiti a tiro. Ma non serve una memoria prodigiosa per ricordargli le passate controversie. Giunse all’improvviso: il premier italiano più giovane della storia, autore dell’indimenticabile 40 per cento del Pd alle europee 2014, infine responsabile di un leggendario tracollo politico. Adesso è ovunque. Giornali e tv se lo contendono, speranzosi di poter concedere alle agenzie l’ennesima sparata. Matteo non delude mai. Nonostante le perplessità dell’elettorato, vagheggia la riscossa: «Siamo tornati in campo perché non accettiamo l’incantesimo di un’opposizione addormentata».Lui, invece, è più arzillo dei vecchietti di Cocoon. La «fase zen», annuncia, è terminata. In realtà, non sovvengono comportamenti monastici. Il suggello, comunque, arriverà il prossimo 18 marzo, quando uscirà il suo ennesimo libro: L’influencer. È dedicato alla premier. «Il grande asset della Meloni è che non ha dall’altra parte gente che si mette insieme»: disse colui che litigò furiosamente con chiunque non abbia allisciato il suo sconfinato ego. Tralasciamo la discutibile eleganza del gesto: un ex presidente del Consiglio che, pur di far parlare di sé, scrive un libro contro un successore. Per la sua gioia, visto che l’importante è che se ne parli, concentriamoci piuttosto sulle incoerenze del redivivo. Prendiamo, appunto, l’imminente bestseller. Matteo annuncia, per dirne una, di rivelare i rapporti incestuosi che correrebbero tra la premier e la stampa benevolente. Proprio lui. Mentre è a Palazzo Chigi rivela una preziosa informazione a Carlo De Benedetti, gloriosa tessera uno del Pd e allora editore dell’imprescindibile Repubblica. Renzi gli annuncia l’approvazione del decreto banche. L’Ingegnere investe così cinque milioni di euro sulle Popolari, guadagnando una plusvalenza di 600 mila euro. Segue inchiesta

Gen 31, 2025 - 00:01
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Matteo Renzi e il giorno della marmotta


Proprio come nel famoso film, Renzi vorrebbe tornare daccapo, ai lontani fasti. Ma invano: rimane ancora e ancora a percentuali minime. Bastano a battere la destra dice lui. Chi si accontenta...

«La fase zen in cui noi mangiamo fango e sputiamo miele è finita». I duemila sostenitori, il manipolo di parlamentari e la tonificante colonna sonora degli Alphaville in sottofondo: I Want to Be Forever Young. Il sempre giovane Matteo Renzi ha deciso di celebrare i cinquant’anni con la solita sobrietà: sul palco di un teatro fiorentino, annunciando che nulla sarà uguale a prima.

L’ex Rottamatore rinasce moralizzatore, sperando di far dimenticare i tormentati trascorsi. Gli prudono i polpastrelli: e posta come un dannato contro il governo. Per non parlare di Palazzo Madama. Si definiva sommessamente uno scornato «senatore semplice di Scandicci». Adesso è un capopopolo senza popolo. Travolto dall’insolito furore, teorizza audace: «Meloni ha paura che il nostro due per cento sia decisivo per la sconfitta della destra». Capito? De-ci-si-vo. Che fine farebbe l’opposizione senza il suo strepitoso apporto? Resta l’insanabile problemone. Voti, seggi, proiezioni. Nemmeno il più ardimentoso sondaggista si spinge oltre. Italia Viva, malriuscita creatura renziana, si approssima ormai a percentuali che ricordano i prefissi telefonici di assolate cittadine del Sud.

Pena l’estinzione, dunque, non resta che svillaneggiare. Per rinascere come in quel film: Il giorno della marmotta. Lì un meteorologo rivive sempre la stessa giornata. Qui un ex premier cerca di tornare invano ai lontani fasti. Dopo adeguate celebrazioni, raggiunto il mezzo secolo di vita, assodata la marginalità, Matteo ricomincia da dove ripartì. Era il settembre 2019. Passata una lunga stagione a Palazzo Chigi, l’ex segretario del Pd decide di fondare Italia Viva. «Avremo centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti» annuncia. «Non saremo un partito del cinque per cento» assicura. «Magari» risponderebbero oggi i quattordici parlamentari rimasti: un terzo di quelli che, oltre cinque anni fa, lo seguirono speranzosi. L’ultimo a fare ciao ciao con la manina è stato il turboeconomista Luigi Marattin, deluso dall’ultimo intento del leader: far rifiorire, nel campo largo, l’appassita Margherita.

È lo stesso proponimento del sempreverde Romano Prodi, che ha persino individuato il suo possibile erede: Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell’Agenzia delle entrate. Matteo diventa quindi il maranza di Palazzo Madama, pronto a fare esplodere le casse durante ogni seduta. Intanto, Italia Viva perde anche l’unico invidiabile record conquistato in questi anni: fare incetta di finanziamenti, tra imprenditori e supporter. Nel 2022 aveva raccolto quasi 2,3 milioni di euro. Nel 2023 s’è invece fermato a 497 mila euro: meno 78 per cento.

Attenzione, però. Non si tratta solo di un banale ritorno alle origini, come un Toninelli qualsiasi. Il piano è ben più articolato. Renzi è l’inarrestabile fustigatore, dimentico dei notevoli trascorsi. Ne ha per tutto il governo. Taccia di opacità e nefandezze chiunque gli capiti a tiro. Ma non serve una memoria prodigiosa per ricordargli le passate controversie. Giunse all’improvviso: il premier italiano più giovane della storia, autore dell’indimenticabile 40 per cento del Pd alle europee 2014, infine responsabile di un leggendario tracollo politico. Adesso è ovunque. Giornali e tv se lo contendono, speranzosi di poter concedere alle agenzie l’ennesima sparata. Matteo non delude mai. Nonostante le perplessità dell’elettorato, vagheggia la riscossa: «Siamo tornati in campo perché non accettiamo l’incantesimo di un’opposizione addormentata».

Lui, invece, è più arzillo dei vecchietti di Cocoon. La «fase zen», annuncia, è terminata. In realtà, non sovvengono comportamenti monastici. Il suggello, comunque, arriverà il prossimo 18 marzo, quando uscirà il suo ennesimo libro: L’influencer. È dedicato alla premier. «Il grande asset della Meloni è che non ha dall’altra parte gente che si mette insieme»: disse colui che litigò furiosamente con chiunque non abbia allisciato il suo sconfinato ego. Tralasciamo la discutibile eleganza del gesto: un ex presidente del Consiglio che, pur di far parlare di sé, scrive un libro contro un successore.

Per la sua gioia, visto che l’importante è che se ne parli, concentriamoci piuttosto sulle incoerenze del redivivo. Prendiamo, appunto, l’imminente bestseller. Matteo annuncia, per dirne una, di rivelare i rapporti incestuosi che correrebbero tra la premier e la stampa benevolente. Proprio lui. Mentre è a Palazzo Chigi rivela una preziosa informazione a Carlo De Benedetti, gloriosa tessera uno del Pd e allora editore dell’imprescindibile Repubblica. Renzi gli annuncia l’approvazione del decreto banche. L’Ingegnere investe così cinque milioni di euro sulle Popolari, guadagnando una plusvalenza di 600 mila euro. Segue inchiesta per insider trading. Archiviatissima, per carità. Niente di losco, ci mancherebbe. L’episodio però esemplifica gli splendidi rapporti intrattenuti con l’ex padrone del quotidiano simbolo della sinistra tricolore.

Andiamo avanti. Il fido Francesco Bonifazi presenta due interrogazioni alla Camera, insinuando scarsa trasparenza della premier. Meloni, chiede il deputato di Italia Viva, favorisca l’elenco dei regali sopra i 300 euro ricevuti durante il mandato. E poi, la lista dei fornitori utilizzati per ristrutturare casa, così come l’eventuale ricorso ai bonus fiscali. In attesa delle risposte, ci permettiamo di riesumare altri trascorsi. Fu proprio Panorama a rivelare, nell’aprile 2015, che la villa a Pontassieve della famiglia Renzi era stata ristrutturata, tra l’ottobre 2004 e il luglio 2006, da una società di costruzioni dell’amico Andrea Bacci: la Coam, poi fallita. Due mesi dopo la fine dei lavori, l’imprenditore viene chiamato da Renzi, a quel tempo presidente della Provincia di Firenze, per dirigere Florence multimedia, società partecipata che si occupa di comunicazione. A Panorama, allora Bacci nega ogni nesso tra ristrutturazione e nomina: «Stia però sicuro che m’ha pagato, altrimenti io quei lavori non li facevo mica eh!». Sì, ma quanto? Non è che c’è scappato uno sconticino? «Sono passati più di dieci anni, abbia pazienza…». All’epoca, dunque, niente ricevute. Anche Marco Carrai, altro imprenditore fiorentino e storico amico di Matteo, ha avuto strategici incarichi nell’era renziana. Mette a disposizione un attico in via degli Alfani, a Firenze, dal marzo 2011 al gennaio 2014. Ci pensa lui a pagare i canoni d’affitto: circa 37 mila euro. Nello stesso periodo, Carrai viene nominato alla guida di due società pubbliche: amministratore delegato della Firenze parcheggi e presidente dell’Aeroporto di Firenze.

Comunque sia: le interrogazioni di Italia Viva non sembrano una legittima richiesta di chiarimenti, ma un grossolano tentativo di vendetta. Il governo ha voluto una norma che vieta a parlamentari di avere incarichi retribuiti fuori dall’Ue. Il pensiero, ovviamente, non può che correre alle retribuitissime conferenze di Renzi nell’Arabia del principe Mohammad bin Salman. Matteo, dopo essere diventato un cantore del «rinascimento» saudita, si sarebbe indispettito anche per i proficui rapporti destinati a nascere con l’Italia. A fine gennaio, Meloni infatti vola a Riad per il suo primo faccia a faccia con Bin Salman, già programmato nel 2024 e poi saltato.

«Sul mio reddito incide solo per il 10 per cento» giura l’interessato. Sarà. È passato dai 29.315 euro guadagnati nel 2017 ai 2,3 milioni che ha dichiarato nel 2023, persino in calo rispetto ai 3,2 milioni dell’anno precedente. Poco importa: adesso Matteo rinasce. Impavido fustigatore. Supremo moralizzatore. Cavaliere senza macchia. Basta «sputare miele», qualsiasi cosa voglia dire. I treni arrivano in ritardo? Il ministro dei trasporti, Matteo Salvini, tragga le dovute conseguenze: «Dimettiti, buffone». La giustizia è quella che è? Il sottosegretario, Andrea Delmastro, si faccia da parte: «Dimettiti, forcaiolo».

Nessuno che l’accontenti, però. Certo, pure stavolta il pulpito è traballante. Ricordate cosa promise ai tempi del referendum costituzionale del 2016? «Se non passa la riforma, finisce la mia storia politica». Eccoci qui, invece, tentando di riassumerne a fatica le ultime gesta. È come lo smemorato di Collegno, che del passato non ricordava nulla? Macché. Per lo spumeggiante Matteo, piuttosto, il giorno della marmotta si spinge fino ai tempi del liceo. Lui già le sparava gigantesche. Ai compagni, con una frase diventata lapidario soprannome, non restò che concludere: «È il Bomba». n

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