La caccia all’oro del Congo: la guerra del sottosuolo per i nostri smartphone
Bahati aveva soltanto 12 anni e Amelie ne aveva 13 quando la loro vita cambiò per sempre. Entrambi erano a scuola nella provincia del Nord Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, quando nel 2023 furono attaccati da un gruppo di miliziani del M23. Anche se separato dalla sua famiglia, il primo riuscì a scappare […]
Bahati aveva soltanto 12 anni e Amelie ne aveva 13 quando la loro vita cambiò per sempre. Entrambi erano a scuola nella provincia del Nord Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, quando nel 2023 furono attaccati da un gruppo di miliziani del M23. Anche se separato dalla sua famiglia, il primo riuscì a scappare e a rifugiarsi in un campo profughi del capoluogo Goma, l’altra invece fu catturata dagli uomini armati. Sei suoi compagni furono uccisi sul posto dai ribelli mentre Amelie subì molestie e aggressioni prima di riuscire a fuggire in città con il favore della notte.
Oggi però l’incubo è tornato con la conquista di Goma da parte del gruppo armato appoggiato dal vicino Ruanda e i conseguenti assalti alle ambasciate di Francia, Belgio, Uganda, Ruanda e Kenya nella capitale Kinshasa. Qui la guerra non si è mai fermata, anche perché le ostilità, accese dalle rivalità etniche, vengono continuamente alimentate da ingenti interessi economici legati alle straordinarie risorse minerarie di cui la zona è ricchissima, in particolare di coltan, un materiale indispensabile per la tecnologia digitale e la transizione ecologica.
Le radici dello scontro
Ufficialmente, il “Mouvement du 23 mars” fu fondato nel maggio 2012 da un gruppo di ex soldati di etnia Tutsi dell’ormai disciolto Congrès national pour la défense du peuple (Cndp), nato a sua volta nel 2009 da alcuni disertori dell’esercito di Kinshasa dopo il fallimento di un trattato di pace firmato proprio il 23 marzo di quell’anno, che prevedeva tra l’altro l’integrazione nelle truppe regolari dei congolesi di origine ruandese. Il loro obiettivo dichiarato era combattere un’altra milizia locale, le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), composta da gruppi di etnia Hutu coinvolti nel genocidio ruandese del 1994, che causò un milione di morti, quasi il 90 per cento di etnia Tutsi.
Subito dopo la sua costituzione, l’M23 riuscì addirittura a conquistare Goma, anche se l’occupazione della città durò soltanto una decina di giorni. Ma lentamente i ribelli cominciarono a prendere il controllo di buona parte della provincia del Nord Kivu, aiutati da una campagna di reclutamento condotta anche tra ex membri dei movimenti ribelli sostenuti da Ruanda e Uganda durante la prima e la seconda guerra del Congo. Ma è dal 2021 che il gruppo ha accresciuto i propri ranghi, lanciando appelli anche ad altre comunità e puntando a obiettivi nazionali come il rovesciamento del governo di Kinshasa, finché l’anno scorso l’M23 non si è unito ad altre 17 tra milizie e movimenti politici per formare l’Alliance Fleuve Congo (Afc) dell’ex presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente, Corneille Nangaa. Il conflitto infatti è sempre più ampio e coinvolge non solo la Repubblica Democratica del Congo e il vicino Ruanda ma arriva fino ai cellulari che abbiamo in tasca.
Il cuore del traffico
Se oggi, dopo aver preso Goma, l’M23 punta al Sud Kivu, altra provincia ricca di risorse come cobalto e oro dove operano anche un centinaio di compagnie minerarie cinesi, per lo più senza licenza, il cuore della ricchezza che alimenta il gruppo armato si trova a un paio d’ore di auto a ovest del capoluogo congolese, nella località di Rubaya, conquistata nell’aprile dello scorso anno. Con quella vittoria, il movimento prese il controllo di uno dei più ricchi giacimenti di coltan al mondo, la cui produzione rappresenta il 15 per cento dell’offerta mondiale e la metà delle esportazioni congolesi. Questo minerale, da cui si estrae il tantalio, viene utilizzato per realizzare i condensatori impiegati nella maggior parte degli smartphone e dei dispositivi digitali.
Secondo una rapporto presentato a fine dicembre da un gruppo di esperti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’M23, che finanzia le sue operazioni esportando minerali dalle aree occupate, ha creato un vero e proprio «ministero delle miniere» per supervisionare le esportazioni di coltan da Rubaya. Soltanto così il gruppo armato riesce a guadagnare almeno 800mila dollari al mese dall’esportazione mensile di 120 tonnellate di coltan, al prezzo di altri 100mila sfollati che solo dall’inizio di quest’anno sono andati ad aggiungersi ai 4,6 milioni che da anni popolano i campi profughi della zona.
Ma il lavoro in miniera, che per quasi seimila abitanti locali costituisce l’unico mezzo di sostentamento, somiglia a un vero inferno. Secondo un rapporto pubblicato nel 2016 dalle ong Amnesty International e Afrewatch, migliaia di bambini lavorano nel settore dell’estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo, alcuni fino 12 ore al giorno, trasportando carichi pesanti, per compensi quotidiani che vanno da uno a due dollari. Secondo l’ultimo rapporto sulla miniera di Rubaya stilato dal think tank International Peace Information Service, risalente a prima dell’occupazione dei ribelli, qui il lavoro minorile, seppur ufficialmente proibito, è un problema diffuso. Alcuni gestori di pozzi infatti non si facevano scrupoli nemmeno prima dell’arrivo dell’M23 a impiegare in miniera persino i bambini, «meno esigenti degli adulti in termini di retribuzione» e spesso «nascosti sottoterra tra gli altri minatori o fatti uscire all’aperto solo in occasione delle ispezioni ufficiali». D’altronde molti lavorano comunque intorno ai siti minerari, accompagnando i genitori, trasportandone i carichi, vendendo cibo e bevande all’ingresso delle miniere o spaccandosi la schiena nelle fabbriche in cui si “lava” il minerale. Un vero e proprio inferno, che ingrassa mediatori e aziende tecnologiche.
Chi ci guadagna
Due terzi delle riserve mondiali di coltan si trovano infatti nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Dalla regione dei Grandi Laghi in Africa, che comprende anche il Ruanda, arriva metà della produzione mondiale. Ma la zona è anche ricca di cassiterite, da cui si ricava lo stagno indispensabile per la saldatura dei circuiti elettronici; di tungsteno, utile per la funzione vibrazione e per gli altoparlanti dei telefoni cellulari; e oro, di cui il 10 per cento dell’estrazione mondiale è ormai riservata all’industria digitale per la fabbricazione di schede madri e chip.
Nel corso degli anni, secondo gli investigatori delle Nazioni Unite, il tantalio proveniente dal coltan estratto a Rubaya è stato contrabbandato in Ruanda attraverso la città di Goma. Centinaia di chili di questo materiale vengono caricati sui camion e trasportati dalle miniere del territorio di Masisi al capoluogo del Nord Kivu. Da qui vengono spediti oltre confine passando solitamente dai piccoli valichi di frontiera presenti in città, come il cimitero ITIG, dove per ogni sacco di minerale vengono pagate mazzette in contanti ai militari congolesi e ruandesi di guardia, prima di proseguire per la città-gemella di Gisenyi, in Ruanda, dove vengono etichettati, entrando così, secondo l’ong Global Witness, nella catena di fornitura legale.
Dietro a tutto questo c’è una rete di contrabbandieri locali, vicini o affiliati ai gruppi armati come l’M23, e di mediatori internazionali, tra cui figurerebbero anche cittadini britannici e svizzeri. Ma per Robert Amsterdam, un avvocato statunitense che a dicembre ha intentato una causa contro Apple in Francia e Belgio per conto del governo di Kinshasa, la responsabilità ultima della guerra ricade proprio sui governi e sulle aziende occidentali, con la complicità del Ruanda. Come già denunciato nel 2016 da Amnesty International e Afrewatch, i minerali estratti in Repubblica Democratica del Congo, sia legalmente che illegalmente, finiscono nelle fabbriche dell’Estremo Oriente, per lo più in Cina e Corea del Sud, che a loro volta, vendono questi prodotti alle aziende di componentistica che riforniscono le Big Tech e le case automobilistiche, contaminando le filiere di fornitura globale.
Il caso di Apple è emblematico. Il colosso di Cupertino ha «fermamente contestato» le accuse mosse da Kinshasa contro le sue filiali in Francia e Belgio per presunto «occultamento di crimini di guerra», «riciclaggio di denaro» e «pratiche commerciali ingannevoli», ribadendo di essere «profondamente impegnato» nell’approvvigionamento responsabile dei minerali. Tuttavia, malgrado inizialmente l’azienda avesse affermato che non vi era «alcuna base ragionevole per concludere» che i suoi prodotti contenessero materiali esportati illegalmente da zone di conflitto, dopo l’azione legale del governo congolese, Apple ha ordinato ai propri partner di «sospendere la fornitura di stagno, tantalio, tungsteno e oro dalla Rdc e dal Ruanda». Anche Kigali però nega di aver esportato illegalmente minerali provenienti dal suo vicino, ma i dati permettono di nutrire qualche sospetto. Secondo un rapporto pubblicato nel 2022 da Global Witness, il 90 per cento del coltan, dello stagno e del tungsteno esportati l’anno precedente dal Ruanda erano stati contrabbandati dal vicino Congo. Non solo: secondo i dati forniti dall’Onu e citati dall’agenzia Ecofin, le esportazioni di coltan dal Ruanda sono aumentate nel periodo 2014-2018 ma hanno registrato un incremento «senza precedenti» nel 2023, in concomitanza con l’avanzare dei gruppi armati come l’M23.
Tanto che nel febbraio di un anno fa la Commissione europea firmò un memorandum d’intesa con Kigali per una fornitura «sostenibile» di «materie prime critiche e strategiche». D’altronde, secondo i dati del Rwanda Mines, Petroleum & Gas Board, soltanto nel 2020 il Paese africano ha esportato 733 milioni di dollari di minerali, una cifra arrivata due anni dopo a oltre 810 milioni di dollari. Secondo il database Uncomtrade, gestito dall’Ufficio Statistico delle Nazioni Unite, quell’anno il Ruanda fu uno dei principali esportatori di tungsteno, stagno e tantalio al mondo, coprendo rispettivamente il 31, il 14 e il 5 per cento dell’offerta totale globale. Da qualche parte dovrà pur arrivare ma la domanda è a quale costo. Non solo economico.