Ecco come quando e perché le Big Tech hanno deciso di schierarsi con Trump
Lo stretto rapporto tra l’amministrazione Trump appena insediata e le Big Tech americane non è semplicemente una dichiarazione di intenti o una mera suggestione proveniente dagli osservatori della società d’Oltreoceano. È qualcosa di ben visibile e che si sta gradualmente consolidando, al di là delle foto di rito. Il capofila Musk Se negli anni scorsi […]
Lo stretto rapporto tra l’amministrazione Trump appena insediata e le Big Tech americane non è semplicemente una dichiarazione di intenti o una mera suggestione proveniente dagli osservatori della società d’Oltreoceano. È qualcosa di ben visibile e che si sta gradualmente consolidando, al di là delle foto di rito.
Il capofila Musk
Se negli anni scorsi la Silicon Valley era ritenuta più vicina ai democratici, al punto che molte piattaforme avevano preso duri provvedimenti nei confronti di Donald Trump dopo l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021, il primo a rompere gli schemi nel panorama dei grandi imprenditori del settore digitale è stato una figura non esattamente secondaria come Elon Musk.
Dopo l’acquisizione di Twitter nel 2022, il fondatore di Tesla e SpaceX ha iniziato a schierarsi sempre più apertamente a sostegno dei repubblicani e di Trump, criticando più volte le scelte politiche dei democratici e la sospensione di alcuni account da specifiche piattaforme. Musk, ad esempio, ha dichiarato che Truth, il social network fondato dal tycoon dopo la sua sospensione da Meta e da Twitter, era nato proprio per la mancanza di «free speech» su quest’ultima piattaforma.
Il rapporto con Trump si è fatto via via stretto, con tanto di lauti finanziamenti alla sua campagna elettorale nel 2024, fino alla nomina di Musk a capo del Department of Government Efficiency (Doge), dipartimento creato ad hoc per lui. E si presume che la sua influenza sull’amministrazione appena nata si appresti ad andare ben oltre i ruoli formali.
Ma il patron di Tesla ha fatto solo da apripista a quello che appare come un riposizionamento dell’intera Silicon Valley e delle Big Tech in favore di Trump.
Congratulazioni
Che qualcosa stesse cambiando è stato chiaro a molti alla vigilia del voto, quando il Washington Post non ha pubblicato il suo tradizionale endorsement in vista delle elezioni presidenziali: una decisione che Jeff Bezos, patron di Amazon ma anche editore della celebre testata, ha rivendicato con un editoriale ad hoc e che molti hanno visto come un segno di avvicinamento a Trump. Il giornale della capitale, infatti, ha una lunga tradizione di supporto ai candidati democratici e dopo la vittoria del tycoon nel 2016 aveva inserito sotto la testata la frase «La democrazia muore nell’oscurità».
Dopo il voto del 5 novembre scorso, che ha decretato la vittoria di Trump sulla vicepresidente uscente Kamala Harris, le congratulazioni dalla Silicon Valley non sono mancate. Se Musk era coinvolto nella campagna elettorale al punto dal seguire al fianco del candidato repubblicano l’arrivo dei risultati, nelle ore successive sono arrivate le congratulazioni pubbliche del patron di Amazon Jeff Bezos, del Ceo di Google Sundar Pichai, di quello di Apple Tim Cook, di quello di Microsoft Satya Nadella, del fondatore di OpenAI Sam Altman e persino del fondatore di Meta Mark Zuckerberg.
Solo quattro anni prima, mentre l’account di Trump veniva sospeso su diverse piattaforme, lo stesso tycoon voleva fare causa a Facebook, Google e Twitter accusandoli di censurarlo. Sembra essere passata un’era geologica.
Senza regole
Trump, una volta eletto, ha mostrato grande attenzione al mondo delle Big Tech con una serie di incontri mirati con i capi e i rappresentanti delle principali aziende del settore. E un grosso segnale di ulteriore avvicinamento è arrivato con il finanziamento da parte di numerose aziende tecnologiche o di loro esponenti di spicco, tra cui Meta, Amazon, Microsoft, Apple e OpenAI, al fondo per la cerimonia di inaugurazione del presidente, con cui vengono pagati i festeggiamenti.
Negli Stati Uniti finanziamenti simili stupiscono fino a un certo punto, ma l’elemento ha rappresentato un passaggio significativo in questo processo di avvicinamento.
Il passaggio forse più simbolico, però, è stata la netta cesura di Zuckerberg con il passato, arrivata con una clamorosa presa di posizione a poche settimane dall’incontro con Trump nella sua residenza di Mar-a-Lago. Il fondatore di Facebook ha infatti rivisto molte delle politiche di Meta, cancellando il programma di fact checking – che era nato proprio sulla scia delle polemiche secondo cui la diffusione di fake news avrebbe favorito la vittoria di Trump nel 2016 e che mai era piaciuto ai supporters del tycoon –, annunciando community notes sul modello di quelle di X e dismettendo i programmi di “diversità, equità e inclusione”, molto criticati da Trump che li ha a sua volta eliminati da tutti gli enti federali definendoli discriminatori e uno spreco di risorse pubbliche.
Se l’immagine di Musk, Pinchai, Zuckerberg e Bezos schierati in prima fila durante il giuramento di Trump è stata vista come un simbolo di questo nuovo, stretto rapporto, ai simboli si sono affiancati provvedimenti molto chiari.
Intanto, le nomine. Per la Sec (l’equivalente americano della nostra Consob), Trump ha scelto Paul Atkins, aperto sostenitore delle criptovalute. Alla Ftc (l’agenzia a tutela dei consumatori) ha nominato Andrew Ferguson, che si è detto favorevole a ridurre i vincoli per le fusioni e le acquisizioni tra aziende.
Poi c’è il caso di David Sacks, per il quale il neo-presidente ha creato un ruolo su misura come regolatore dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute. Sacks è uno dei principali esponenti della cosiddetta “PayPal Mafia”, quel gruppo di ex dipendenti della nota banca online che negli anni hanno creato aziende soprattutto tecnologiche di successo e che vede tra i suoi massimi rappresentanti figure come Musk e Peter Thiel. Agli occhi di molti osservatori, questo gruppo si sta gradualmente affiancando al deep state americano, divenendone parte integrante: qualcosa che in ogni caso mostra la crescente influenza di queste figure legate alle imprese tecnologiche.
Queste scelte lasciano intendere che la politica sulle Big Tech sarà la stessa che ci si aspetta da Trump su altri fronti economici interni: la parola d’ordine è “deregulation”, così da non mettere limiti all’innovazione e lanciare una sfida diretta alla Cina sul campo del digitale (con tutti i rischi connessi del caso).
Sfida alla Cina
Nel frattempo, oltre a intenti e nomine, Trump ha lanciato quello che ha definito il più grande progetto della storia in materia di intelligenza artificiale, ovvero lo Stargate Project. Si tratta di un investimento di 500 miliardi di dollari da qui al 2029 che sarà capace – secondo il presidente – di creare 100mila posti di lavoro e vedrà coinvolte importanti aziende dei settori tecnologico e finanziario, come OpenAI, SoftBank, Oracle e il fondo emiratino Mgx, che per prima cosa realizzerà dieci data center ad Abilene, in Texas, e punta a rendere gli Stati Uniti leader indiscussi nel settore dell’I.A..
Tuttavia, proprio questo ambizioso progetto è stato criticato pubblicamente dallo stesso Musk, che ha messo in dubbio la disponibilità economica dei privati coinvolti e si è lanciato in un nuovo scontro con Sam Altman, patron di OpenAi, con cui intrattiene da tempo una rivalità (da quando il fondatore di Tesla ha lasciato la società di intelligenza artificiale di cui era stato tra i massimi finanziatori).
Proprio questo scontro tra due pezzi da novanta della Big Tech, con tanto di aperta critica aperta da parte del massimo sostenitore di Trump a un progetto lanciato in pompa magna dal neo-presidente, mostra come in questo nuovo schema oligarchico gli scontri possono comunque scaturire.
Peraltro, il nuovo rapporto tra la Casa Bianca e la Silicon Valley sembra nascere con le idee molto chiare, puntando a consolidare la leadership americana nell’innovazione e nella tecnologia, in una guerra commerciale con la Cina che si combatterà anche a suon di dazi. La guerra per il primato tech tra Washington e Pechino, infatti, non si combatte solo sull’intelligenza artificiale, nei giorni in cui il mondo sta scoprendo DeepSeek, la nuova I.A. cinese, ma anche sul mercato dei semiconduttori, necessari per la realizzazione di computer e smartphone, e delle materie prime.
Non sarà solo una gara a chi investe di più e chi coinvolgerà gli scienziati migliori. Sarà uno scontro anche a base di dazi e di accesso alle materie prime che toccherà probabilmente anche la sfera geopolitica. Ma questa è, almeno in parte, un’altra storia.