Gaza riviera di lusso, tutti i segreti (e i limiti) del piano di Trump
Il presidente americano, assieme al genero Jared Kushner, afferma di voler creare la "Las Vegas del Medio Oriente" sulla costa di Gaza. Ma può davvero riuscirci? Quanto ci vorrà e quanto costerà la ricostruzione? E i palestinesi, dove andranno?
Quando parla Donald Trump, occorre sempre analizzare dove finisce la propaganda e inizia la strategia. Esercizio faticoso, ma necessario. Negli ultimi giorni tiene banco il fragoroso annuncio di voler trasformare la costa di Gaza in una Las Vega mediorientale, una riviera di lusso con resort e immobili di pregio. Una proposta avanzata già in passato dal genero Jared Kushner.
Ma è fattibile un progetto del genere? Nonostante i proclami e le conferenze stampa in pompa magna con Netanyahu, il piano del presidente americano non sembra avere sbocchi operativi. Almeno non a breve e medio termine. Le intenzioni strategiche del tycoon in merito alla Striscia sono ben altre, approvate dalla maggioranza degli apparati statunitensi.
La “Las Vegas del Medio Oriente”, il piano di Trump per Gaza
La prima questione da tenere a mente è che il progetto architettonico “per ricchi” di Donald Trump ha un destinatario ben preciso: Israele. Fin dall’indomani del maxi attacco del 7 ottobre, nello Stato ebraico si è iniziato a ragionare di trasformare la costa dell’enclave palestinese in un polo di turismo di alto livello in grado di rivaleggiare con le mete egiziane e del Golfo, da Sharm el-Sheikh a Dubai. La retorica della “Las Vegas del Medio Oriente” è dunque rivolta all’opinione pubblica israeliana, nella sua componente più nazionalista. Non foss’altro perché regalerebbe a Tel Aviv un polo balneare di grande interesse internazionale e, soprattutto, comporterebbe la completa deportazione degli abitanti palestinesi in altri territori. Un successo propagandistico collaudato dal genero di Trump, Jared Kushner, già un anno fa, senza però mettere nulla nero su bianco. Il presidente americano ha rilanciato il programma aggiungendoci un aspetto decisivo per i suoi elettori americani: la “nuova” Striscia di Gaza sarà gestita sotto il controllo degli Stati Uniti.
Inutile dire che la proposta del tycoon ha attirato le polemiche di chi si schiera (anche per convenienza) con la causa palestinese. La mossa equivarrebbe infatti a una pulizia etnica sulla scia di quella già compiuta da Israele, illegale secondo il diritto internazionale. Ma questo aspetto, lo sappiamo, non ha mai fermato nessuno. Già a ottobre 2024, a un anno dall’escalation del conflitto con Hamas, Trump aveva avuto il discutibile gusto di affermare che Gaza sarebbe potuta diventare “meglio di Monaco” se ricostruita nel modo giusto. Qual è questo modo giusto? Innanzitutto gli Usa dovrebbero assumere la proprietà “a lungo termine” della Striscia e la riqualifichino dopo che i palestinesi saranno stati reinsediati altrove.
Per il resto, si cavalcano vecchi ardori israeliani. I politici dello Stato ebraico hanno spesso rimproverato i leader palestinesi di concentrarsi sulla lotta armata anziché sviluppare una “nuova Dubai” o “nuova Singapore” in aree come Gaza. Ciò che si omette, però, è che negli ultimi due decenni la Striscia è stata sottoposta a un blocco che ha fortemente limitato l’accesso ai finanziamenti e ai beni di prima necessità. Negli anni passati, l’enclave costiera è stata una destinazione popolare per i turisti israeliani, anche dopo la presa del potere da parte di Hamas nel 2007. All’inizio della guerra, sui social venivano ampiamente condivisi meme e rendering che mostravano immagini fittizie di condomini sulla spiaggia lungo la costa di Gaza, spesso tramite manifesti filo-israeliani che canzonavano i palestinesi.
Cosa vuole fare (davvero) Trump con la Striscia di Gaza
In pieno slancio retorico, il presidente americano ha dichiarato di immaginare “la gente del mondo” che vive in una Gaza riqualificata. Una “riviera del Medio Oriente così preziosa” da indurre gli abitanti a vivere in pace”. Poetismi maldestri a parte, nei piani di Trump c’è lo scarico di responsabilità della deportazione dei palestinesi sulle spalle di Israele. Il quale, senza perdere troppo tempo, ha ordinato all’esercito di attuare un programma per lo “sfollamento volontario” della Striscia. Tradotto: i palestinesi ancora residenti a Gaza saranno caldamente invitati a lasciare il loro territorio. “Alla popolazione di Gaza deve essere consentito di godere della libertà di movimento e della libertà di immigrare”, ha affermato il ministro Israel Katz. Nel frattempo verrà avanzata una proposta per la ricostruzione di una “Gaza smilitarizzata”, nell’era successiva al governo di Hamas. Un progetto che richiederà molti anni per essere completato.
Un alto funzionario dell’amministrazione americana, ancora prima dell’incontro Trump-Netanyahu, ha ben delineato i reali obiettivi degli Usa nell’enclave palestinese. Sottolineando che il presidente “è concentrato sul rilascio di tutti gli ostaggi“, il diplomatico ha evidenziato l’importanza dei seguenti punti:
- impedire a Hamas di governare la Striscia dopo la guerra;
- promuovere la normalizzazione tra Israele e monarchie arabe, in primis quella saudita, incarnata dagli Accordi di Abramo voluti proprio da Trump nel 2020 e perseguiti dall’azione di Kushner;
- incentivare con ogni mezzo il trasferimento dei palestinesi in altri territori “più ospitali”, facendo in modo che la responsabilità delle fattive deportazioni ricada su Israele.
Il presidente statunitense sarebbe inoltre d’accordo col piano del governo Netanyahu sull’espulsione da Gaza anche di Urnwa, accusate di non fornire soltanto aiuti umanitari alla popolazione. L’obiettivo di Tel Aviv va però oltre le concessioni di Trump, e ambisce al controllo dell’intero territorio tra il Mediterraneo e la Valle del Giordano.
I limiti del programma mediorientale di Trump
Il piano di Trump per Gaza presenta più limiti che fattibilità. Il primo è che Hamas, al netto di tutti gli accordi su tregua e ostaggi, governa ancora la Striscia. E anche dopo una pur improbabile pacificazione, la condotta feroce dello Stato ebraico ha creato i presupposti di nuove ondate di risentimento e violenza islamisti.
Il secondo limite riguarda la contrarietà dei Paesi arabi al progetto, inclusi i sauditi che Trump vorrebbe portare alla normalizzazione diplomatica e militare con Israele.
Un terzo ostacolo al piano immobiliare su Gaza è di ordine materiale: l’intero territorio della Striscia è stato devastato in una misura mai vista prima, e si stima che per ricostruirlo in maniera accettabile occorreranno almeno 10-15 anni. Una previsione confermata anche dall’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff. Molti più anni dei quattro del ciclo presidenziale di The Donald, per non dire altro. E molti più soldi di quelli che un singolo trust di investitori sarebbe disposto a sborsare: il costo della ricostruzione potrebbe infatti arrivare fino a 100 miliardi di dollari.
Ci sono poi questioni giuridico-legali difficili da sbrogliare. La proprietà terriera a Gaza è regolamentata da un complesso mix di consuetudini ricavate dalle antiche leggi ottomane e dei tempi del mandato britannico, nonché scandita di fatto dalle decisioni dei clan tribali. La maggior parte dei documenti, per intenderci, fa riferimento ai vecchi regimi che hanno governato la regione. Una di queste norme prevede, ad esempio, forti restrizioni all’acquisto di terreni da parte di cittadini stranieri.