Dentro Le Parole | E se dico queer cosa pensi?

Queer non è solo una parola, è un simbolo del pensiero critico: la sua storia evidenzia come il linguaggio sia non solo un effetto, ma anche una causa delle trasformazioni sociali, come spiega Alessandro Lucchini nella quarta stagione della serie sul linguaggio inclusivo

Jan 20, 2025 - 07:18
Dentro Le Parole | E se dico queer cosa pensi?

In collaborazione con Martina Righetti

You’ve got your mother in a whirl
She’s not sure if you’re a boy or a girl
David Bowie, Rebel Rebel

Queer = strano, insolito, prima di tutto. Ma poi anche tutto il resto. 
Parola controversa, riciclata da un repertorio di insulti, è poi diventata baluardo dell’inclusione e della fluidità, specie in relazione all’identità di genere, ma non solo. Essere queer, o pensare queer, può significare non solo appartenere alla comunità LGBTQIA+, ma anche abbracciare un approccio critico che sfida la normatività e le strutture logiche e sociali dominanti.

Non è solo una parola, dunque, è un simbolo del pensiero critico, che esplora orizzonti ben più ampi del linguaggio di genere. La sua storia evidenzia come il linguaggio sia non solo un effetto, ma anche una causa delle trasformazioni sociali. In italiano, e anche in altre lingue, queer è entrata tal quale, mostrando la capacità di alcune parole di superare i confini grazie al loro peso culturale. 

Non siamo tenuti a usarla se non la sappiamo maneggiare, ma possiamo evitare di esserne spaventati. È una parola rispettosa (ricordiamo che la parola scelta da Treccani per il 2024, per la sua attualità e rilevanza sociale, è proprio rispetto, che noi stessi esplorammo tempo fa in queste colonne), perché ci invita a domandarci di più chi siamo come esseri umani, prima che su quale casella (F/M?) mettere la croce nei moduli preistorici delle amministrazioni pubbliche.

Una parola, allora, che parte, sì, da quel famoso LGBTQ…, acronimo in continua crescita, ma che subito ci spalanca il pensiero a prospettive più ampie, che superano le categorizzazioni binarie di tradizione aristotelica, quelle del “terzo escluso” (o è così o non è così), e includono forme ibride o non disposte a farsi definire.

La scena che segue – che è avvenuta o avverrà in un giorno qualsiasi in un ufficio qualsiasi – ci porta infatti dentro la parola queer, per poi aprirci la strada a direzioni diverse, magari anche un po’ strane, appunto.

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Lucia continua a fissare i grafici del progetto inviato al cliente. Quel click, maledizione. Fosse un cartoon, darebbe di gomma per cancellare la mano che ha inviato la mail. Il grafico a pagina 54, in basso a destra, un disastro. Raf, l’ultimo acquisto in agenzia, forse aveva bevuto una birra di troppo la sera prima. O aveva fatto tardi con Andrea, la sua ragazza (o il suo ragazzo?). Lucia non ci capisce niente della vita di Raf, e chi lo sa se pure Raf ci capisce qualcosa.

In un attimo le compare davanti, con il sorriso sardonico e il ciuffo scolpito, tipo David Bowie in Rebel Rebel. Inquadrandolo, Lucia ha un flash: son cinquant’anni da quando il Duca Bianco cantava «Hai messo tua madre nei guai, non è sicura se sei un maschio o una femmina», esibendo outfit, acconciatura e movenze decisamente queer. E le parole queer, Raf ed errore, nello stesso pensiero, non le migliorano l’umore. Sta decidendo se cazziarlo all’istante o attendere 30 secondi.

Raf – Lucia buondì! Mammamiaaa che faccia, dai che è il venerdì casual, portiamocelo pure un po’ dentro, oltre che nell’outfit!Ti-Gi-Ai-Ef!

Lucia – Che?

R – TGIF, Thanks God It’s Friday, c’mon! Ok Lucia, ho capito, non è giornata. Dimmi quello che mi devi dire, che poi ho promesso a Walter che l’avrei aiutato a fare una cosa. Di lavoro, eh.

L – Raf, hai presente il progetto che abbiamo inviato al cliente lunedì mattina? Quello che ti avevo chiesto di integrare e rivedere bene. Molto bene, per non sbagliare. Hai presente?

R – Come no? Quindi? 

L – Quindi non andava bene per niente! Guarda il grafico a pag. 54: è sbagliato. SBAGLIATO! Hai scritto che il prototipo sarà realizzato in 10 giorni, mentre saranno 20. Ma più grave è che dici che useremo un brevetto che non abbiamo! Non hai indicato la procedura corretta!

R – Mmmhhh, strano. Però se dici che è sbagliato, avrò sbagliato!

L – Hai sbagliato, non “avrai”, è sicuro! 

R – Ok, può essere! Però questo potrebbe essere proprio un bell’esempio di errore queer!

L – Errore che?

R – Errore queer. Sai niente di questa parola?

L – So più di quello che pensi, Raf. Ho anche letto il libro di Michela Murgia, God Save the Queer, mi piaceva l’idea che parlasse di un catechismo femminista. Poi ne parlano tutti, della fluidità di genere, del non pensare in modo binario, del superare le categorie mentali legate all’identità sessuale. O di genere, o come si dice.

R – Piano. L’identità sessuale è definita dalla biologia, e sta nei nostri genitali. L’identità di genere è cosa tutta diversa. Come dice la filosofa Judith Butler, riguarda le norme che ci vengono trasmesse dai genitori, dalla società, dai media. Norme che prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere uomini o donne. Noi dobbiamo continuamente negoziare con esse. Alcuni di noi sono attaccati a queste norme, le incarnano con ardore; altri le rifiutano. Alcuni le detestano, ma si adeguano. Altri navigano nell’ambiguità. Altri non si conformano alle consuetudini sull’argomento, non dichiarano la propria identità o si stanno ancora interrogando sul tema: le persone queer, appunto.

1) Queer: tanti significati

L – Quindi queer è una persona che non ha risposte precise sulla propria sessualità? Pensavo ci fosse dentro qualcosa di offensivo.

R – In origine, in effetti, c’era l’intenzione dell’insulto. Anche se il dizionario Oxford dà come prima definizione semplicemente “strano, insolito”, fino al ’600 la parola si usava in inglese proprio per offendere chi appariva, appunto, un po’ strano, e proprio in quel senso. E dall’800 si usava per insultare i gay. Ma con le battaglie per i diritti civili condotte in tutto il mondo nella seconda metà del ’900, è entrata nel dibattito pubblico e nelle scienze sociali, specie negli studi sulla sessualità, ed è diventata una parola super inclusiva.

Tecnicamente queer è un “iperonimo”, un termine ombrello che definisce un insieme molto esteso di suoi “iponimi”. Come verdura, che è iperonimo di patata, pomodoro, peperone. Queer si può usare per indicare chiunque non voglia avere un’etichetta. Per esempio, secondo Treccani, una famiglia queer è una comunità di persone che, indipendentemente dal genere o dall’orientamento sessuale, vivono insieme per scelta e sono legate da qualche affinità, ideali o sentimentali, o dalla condivisione di certe attività. 

L – Ma l’etimo?

R – Sembra connesso con l’avverbio tedesco quer, che significa “di traverso”, “diagonalmente”. Simile al latino torquēre = torcere. Ma ci piace di più un’altra ipotesi, sempre dal latino, che si collega alla lettera Q, iniziale di quaestio: la domanda, più creativa della risposta; il dubbio, più vitale della certezza. Tra l’altro, parte dello stesso movimento LGBTQIAPK critica l’inclusione della parola queer nel famoso acronimo proprio per la sua origine offensiva. Alcuni preferiscono legare alla Q proprio la parola questioning. Che rappresenta chiunque, alla domanda “Qual è la mia identità di genere?”, non si affretti per trovare una risposta univoca e definitiva.

L – Mi stai ubriacando, Raf. Faccio fatica a interiorizzare i concetti legati a tutte queste nuove etichette. Avrei un sacco di domande su cosa significhino, come usarle, quanto siano utili, quanto siano inclusive o, al contrario, divisive.

R – Beeeneee! Le domande al posto delle certezze! Starai mica diventando un po’ queer anche tu?

L – Ecco, questa mi mancava. Ma senti, tutta questa dissertazione che c’entra con il tuo errore? Vedo che ne sai di queerness, ma ora dobbiamo aggiustare il disastro che hai combinato con quel grafico nel progetto.

2) E l’errore queer?

R – Ok, ora sei pronta, possiamo arrivarci                         </div>
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