Vite mafiose: l’identikit di un affiliato a Cosa Nostra
Quando sono davanti ad un cadavere mi faccio sempre le stesse domande: ha visto arrivare l’assassino? Ha capito che stava per morire? Cosa passa per la mente negli ultimi istanti? Il dottor Paolo Giaccone, che in quegli anni faceva il medico legale a Palermo, mi raccontò di essere in grado, davanti a un cadavere, di […]
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Quando sono davanti ad un cadavere mi faccio sempre le stesse domande: ha visto arrivare l’assassino? Ha capito che stava per morire? Cosa passa per la mente negli ultimi istanti? Il dottor Paolo Giaccone, che in quegli anni faceva il medico legale a Palermo, mi raccontò di essere in grado, davanti a un cadavere, di capire se l’uomo è stato colto di sorpresa o invece ha visto arrivare i suoi assassini: nel secondo caso il terrore degli ultimi istanti lascia tracce visibili nell’organismo. Quando poi ammazzarono lui, nel 1982, fui io a chiedermi se li avesse visti arrivare. Il dottore aveva trovato l’impronta di un fedelissimo di Riina su un’auto usata per uccidere quattro disgraziati a Bagheria. E aveva scritto una perizia che inchiodava il mafioso. L’avvocato del mafioso aveva spiegato a Giaccone che era meglio per tutti se quella perizia fosse sparita. Giaccone lo aveva mandato al diavolo senza alzare la voce. Il mafioso aveva preso l’ergastolo. Giaccone era stato ammazzato.
Lo sostituì il suo migliore allievo, Paolo Procaccianti. Andai a trovarlo nello stesso ufficio in cui incontravo il dottor Giaccone, ed era seduto alla stessa scrivania. Ero curioso di sapere cosa vuol dire occupare il posto di uno ammazzato per aver fatto il proprio dovere. Mi disse che si era posto il problema, naturalmente, e che non aveva molto da dire: avrebbe fatto il suo dovere sperando che non lo ammazzassero. Dal modo in cui lo disse capii che non mentiva. Era una mattina di dicembre del 1983, e non sapevo che pochi giorni dopo mi sarei trovato ad avere lo stesso problema.
Visione apocalittica
Nei primi anni Ottanta nel mondo succedono un sacco di cose: la fine delle Brigate Rosse; Ustica e Bologna; Pertini presidente; Goldrake, Happy Days, la tv commerciale; Carter e Reagan; il cubo di Rubik; la morte di John Lennon; il terremoto in Irpinia; il ferimento di papa Wojtyla; gli attentati palestinesi; l’uscita di “L’era del cinghiale bianco” di Battiato; la scoperta della P2; nel 1982 vinciamo il mondiale di calcio; nel 1983 il Catania torna in serie A. Per me però esiste solo la mafia. Insomma, quasi solo la mafia. La notte di Italia-Spagna con Claudio e Antonio siamo andati in piazza Verga e abbiamo fatto il bagno nella fontana comunale. La fidanzata però mi ha lasciato per quel Fabio. Ma non importa, non ho tempo. Ho un sacco di cose da studiare e su cui ragionare: gli equilibri tra le cosche, il fatto che la mafia alza il tiro e ammazza gli uomini dello Stato. E i rapporti con la politica, con l’economia, la cosiddetta economia mafiosa fondata sui soldi della droga.
Le vite dei mafiosi mi affascinano come quelle dei santi, cui sono accomunati, mi sembra, dalla visione apocalittico-escatologica dell’esistenza: fede innaturale nelle proprie possibilità, senso di responsabilità verso il proprio gregge, vocazione al martirio, vita di penitenza, urgenza della decisione, furente dinamismo di chi non accetta il suo destino e vive il presente come un perenne combattimento. Mi chiedo che razza di uomo sia uno che ha archiviato ogni dubbio sull’uccidere e l’essere ucciso: come vive, che esistenza conduce, cosa pensa, se vorrebbe un’altra vita… In seguito di mafiosi ne ho conosciuti tanti. Quasi tutti sono collaboratori di giustizia, e in alcuni il pentimento è reale, in altri frutto di calcolo, ma in tutti c’è l’orgoglio, nemmeno troppo nascosto, di aver vissuto in maniera speciale; infatti se appena si lasciano un po’ andare gettano la maschera della contrizione e ti raccontano i loro omicidi come un ex calciatore le sue azioni migliori; mentre parlano con nostalgia dei codici d’onore della vecchia mafia, mi ricordano i vecchi campioni che rimpiangono il buon vecchio calcio di una volta.
Il mafioso siciliano è qualcuno che per motivi legati al luogo o alla famiglia di nascita è salito su una giostra da cui si scende quasi sempre morendo o andando in galera prima di aver compiuto i cinquant’anni; se è un grande boss, vivrà il paradosso di possedere enormi ricchezze e di trascorrere tutto il suo tempo nascosto in un rudere nelle campagne siciliane, o se gli va bene nel bilocale ammobiliato di qualche triste paesotto, come Matteo Messina Denaro. Se è un mafioso di basso o medio rango ha una vita frenetica come quella di un broker cocainomane di New York: il girovagare da una parte all’altra della città, la miriade di appuntamenti, gli appostamenti, il febbrile scambio di messaggi, le attese interminabili, l’attenzione spasmodica messa in ogni cosa, perché un ordine mal eseguito, un’occhiata fuori luogo, una parola di troppo, può costare la vita; così il manovale mafioso non si rilassa mai, incalzato dai problemi, in perenne lotta con un mondo ostile; ed è solo, perché sa che l’amico di oggi potrà strangolarlo domani, e viceversa perché potrebbe essere lui a dover ammazzare l’amico senza che gli spieghino il perché. Nel suo andirivieni il mafioso non dimentica gli obblighi familiari: il pomeriggio in cui Totuccio Contorno si batté in epico duello contro il superkiller dei corleonesi Pino Greco Scarpuzzedda, aveva appena prelevato dal doposcuola un amichetto del figlio.
Aneddoti macabri
Il mafioso mangia male, perché va sempre di fretta o per assecondare la propria subcultura: se è con i colleghi, in una delle tante situazioni conviviali, inghiotte grandi quantità di carne cotta alla brace; se è al lavoro, impegnato in appostamenti e attese, si nutre di cibo di strada: le micidiali panelle unte d’olio, gli arancini, le cartocciate e lo sfincione; e soprattutto il cibo dei veri uomini, le interiora: stigghiola, meusa, ciriveddu, sanceri. Tutta roba che non si smaltisce in meno di due giorni e che induce un enorme accumulo di grasso, colesterolo, stress. Il mafioso indossa giacche e maglioni di una taglia più grande della sua, per nascondere la pistola. Sceglie capi costosi ma pacchiani, che rivelano la maldestra voglia di riconoscimento sociale. Come i personaggi dei romanzi di Bellow, è continuamente in bilico tra tragedia e comicità.
Anni fa un pentito mi raccontò una storia: il boss aveva dato a lui e ad un altro compare l’incarico di ammazzare un traditore. Questi, sapendosi braccato, si nascondeva sotto falso nome in un campeggio dalle parti di Taormina. Il mio narratore e il compare individuarono il posto. Misero il naso dentro e constatarono che era molto affollato. Lì non si poteva ammazzare nessuno. I due decisero di appostarsi in auto nel parcheggio di un bar di fronte al campeggio. Era il primo pomeriggio e se il tizio si fosse deciso ad uscire sarebbero stati a casa per cena. Le ore passarono, si fece sera, e prima che il bar chiudesse uno dei due andò dentro a prendere un paio di panini e due birre. Arrivò la notte, reclinarono i sedili e dormirono a turno. L’attesa proseguì anche l’indomani. Era estate, faceva molto caldo, i due sudavano. In tarda mattinata un inserviente del bar bussò al finestrino e chiese loro se avevano dei problemi. Lo convinsero con un’occhiata a farsi gli affari propri, ma a quel punto erano stati notati e dovevano andarsene. Trovarono un altro posto, duecento metri oltre il bar. Era più nascosto ma anche più scomodo di prima: uno dei due a turno doveva appostarsi dietro a un muretto sotto il sole per tenere d’occhio l’ingresso del campeggio. Trascorse così la terza giornata, e poi anche la quarta. All’alba della quinta trovarono il coraggio di chiamare il boss da una cabina telefonica. Quello ribadì che l’informazione sul campeggio era sicura. Era sottinteso che non dovevano azzardarsi a tornare senza aver finito il lavoro. Infine, all’alba del sesto giorno il tizio da ammazzare varcò il portone del camping filando via sopra un motorino. Il mio narratore dormiva al volante, ma l’altro era appostato fuori e lo vide: tirò fuori la pistola e si catapultò in macchina urlando «Andiamo!». L’altro si destò. Girò la chiave di accensione ma il motore sussultò e non si accese: la batteria era scarica. Disperato, il compare sbatté il calcio della pistola sul cruscotto; dall’arma partì un colpo che infranse il parabrezza; i due furono rintronati dal botto e investiti da una pioggia di pezzi di cristallo. Uscirono dall’auto urlando l’uno contro l’altro, e solo per il fatto di essere intontiti e accecati dai frammenti di vetro non finirono per prendersi a pistolettate. Tornarono dal boss convinti che li avrebbe fatti strangolare, e tutto sommato pensando di meritarselo. Quello invece fu così divertito dal loro racconto che decise di graziarli.
Ci sono tante altre storie che sembrano uscite da sceneggiature dei Monty Python. Una ha per protagonista Balduccio Di Maggio, il famoso testimone del presunto incontro tra Totò Riina e Giulio Andreotti: siamo alla vigilia di Natale del 1980, all’inizio della guerra di mafia, e Riina ha invitato l’intero clan Riccobono a mangiare il capretto in una sua tenuta di campagna. Al tavolo dei commensali, però, ha preso posto anche l’incipiente paranoia di Riina: dopo aver sterminato i nemici, il corleonese ha deciso che è meglio continuare il lavoro con gli alleati. Alla fine del pranzo scatta la trappola. In un attimo il capoclan Saro Riccobono si ritrova con una corda al collo. I suoi uomini provano a fuggire sul prato, ad uno ad uno vengono raggiunti e uccisi. L’idea di Riina è di grigliare i cadaveri sulla brace usata per il capretto, ma la cosa non è facile come sembra: tre ore dopo sono ancora tutti lì, i corpi non vogliono saperne di bruciare per intero e nessuno ha pensato al problema delle ossa. Riina è nervoso, serve in fretta dell’acido per finire il lavoro.
Balduccio Di Maggio parte con la sua 127 in cerca dell’acido. Solo che è un giorno di festa, i negozi di ferramenta sono chiusi e Balduccio suda freddo: se a uno come Riina dici che risolverai la faccenda e poi non lo fai, è facile che nell’acido ci finisci tu, nonostante l’onesta carriera da gregario. E dunque il povero Balduccio inizia a girovagare in lungo e in largo, scomoda tutti i suoi contatti, chiede, implora, minaccia, fin quando i fusti di acido saltano fuori in maniera così miracolosa che Di Maggio è sicuro di aver beneficiato di un aiuto dall’alto: prima di tornare in campagna sente dunque il bisogno di entrare in una chiesa e mettere duecentomila lire nella cassetta delle offerte alla Madonna, giacché, come Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, ogni mafioso è convinto che Dio tifi per lui mentre si prodiga per ammazzare altri cristiani.
Gaspare Mutolo, il più importante pentito di mafia dopo Buscetta, mi ha raccontato di aver ucciso una quarantina di uomini senza mai sentirsi in colpa, se non a posteriori molti anni dopo: quelli che ammazzava meritavano di morire, e lui era un semplice soldato. Una volta sola Mutolo ha provato rimorso per la morte di qualcuno: era un poveretto che passeggiando in campagna si era fermato a fare pipì lungo il muro di cinta della villa di Rosario Riccobono. Il boss lo aveva visto, e aveva dato ordine di prenderlo, torturarlo e ucciderlo. Con molta cautela Mutolo aveva osato chiedere il motivo della condanna, e Riccobono gliel’aveva spiegato: nella villa c’erano sua moglie e le figlie; se una di loro si fosse affacciata, avrebbe potuto vedere quel tizio col suo coso tra le mani.
La guerra ai luoghi comuni
I delitti di mafia si somigliano tutti. C’è sempre il morto ammazzato, i rilievi della polizia, i precedenti della vittima, le ipotesi sul movente, che alle strette è sempre lo stesso: la lotta per il potere e il denaro. Così la scrittura giornalistica rischia d’impoverirsi, ma per fortuna il direttore è abile nel condurre una ostinata guerra contro i luoghi comuni, che assorbiamo come spugne. Il primo che scrive che gli inquirenti brancolano nel buio si becca lo sfottò generale. Dopotutto per un cronista di nera saper scrivere è meno importante che non vomitare davanti a un cadavere con la testa squarciata da una pallottola ad espansione; o saper trattare con la gente, per convincerla ad aprirti la porta di casa; o ingraziarti un brigadiere per avere un dettaglio in più. Il direttore è fissato con i dettagli. Quando rilegge i miei pezzi, fa domande: se ho scritto di un uomo che prima di essere ucciso era andato dal barbiere, lui mi chiede se aveva fatto la barba o i capelli; se scrivo di uno ammazzato dopo aver cenato, vuole sapere cosa aveva mangiato. Le sue domande mi spiazzano, ma mi fanno riflettere sul fatto che il mio pezzo sarebbe stato più ricco se io mi fossi fatto le stesse domande.
I dettagli sono il sale di un fatto. Ho ripetuto queste parole allo sfinimento, prima alla Holden di Torino, dove ho insegnato a lungo, e poi ad Itaca, la scuola di scrittura che ho fondato con Claudio Fava e altri amici. Per fare in modo che i ragazzi si ficchino bene in testa l’importanza dei dettagli, come il direttore l’ha ficcato in testa a me, racconto sempre un episodio dell’assedio di Sarajevo degli anni Novanta: ero nella cucina della mia amica Helena, che quella mattina aveva ricevuto un pacco di generi alimentari distribuito dalla Croce Rossa e ne aveva estratto farina, uova liofilizzate e zucchero per preparare una torta.
Lei impastava mentre io memorizzavo la scena per il mio prossimo reportage: un significativo momento di serenità strappato all’assedio grazie al generoso sostegno del mondo civile. In quel momento Helena aveva posato sul tavolo il pacco della farina. Dando un’occhiata all’etichetta avevo scoperto che la data di confezionamento era il 1962, e la farina era destinata ai soldati americani impegnati in Vietnam. Ecco che il dettaglio cambiava significato all’intera scena: la solidarietà dell’Occidente diventava d’un colpo carità micragnosa, utile per smaltire materiale scaduto da decenni, e buono forse per gli animali. Comunque avevamo tanta fame laggiù a Sarajevo che dopo un breve dibattito Helena preparò lo stesso la sua torta, e a dire il vero non era per niente male.