Questi, secondo noi, i migliori film di gennaio 2025

Il cinema è tornato a essere un argomento di discussione, non solo culturale, ma anche identitaria e generazionale. Lo dimostrano i meme, i trend video su TikTok ma soprattutto il fatto che i discorsi social sui film sembrano non riguardare mai solamente le pellicole in sé, ma alimentarsi piuttosto a partire dai temi sociali su cui fanno leva. Ecco, secondo noi, quali sono le migliori pellicole uscite a gennaio. L'articolo Questi, secondo noi, i migliori film di gennaio 2025 proviene da THE VISION.

Gen 31, 2025 - 01:02
 0
Questi, secondo noi, i migliori film di gennaio 2025

Il cinema è tornato a essere un argomento di discussione, non solo culturale, ma anche identitaria e generazionale. Lo dimostrano i dubbi sui premi vinti da Emilia Pérez che fomentano trend ironici su TikTok, le campagne pubblicitarie che si rivolgono direttamente ai giovani, i meme nati da Wicked ma soprattutto il fatto che i discorsi sui film sembrano non riguardare mai solamente le pellicole in sé, ma piuttosto i temi sociali su cui fanno leva. Ecco, secondo noi, quali sono le migliori pellicole uscite a gennaio. 

Emilia Pérez, di Jacques Audiard

Vincitore del premio della Giuria a Cannes, film più premiato all’ultima edizione dei Golden Globes, recensioni positive da parte della critica: Emilia Pérez, l’ultimo film di Jacques Audiard, è sicuramente una delle pellicole che più si sono fatte notare all’inizio di quest’anno. C’entrano non solo la presenza di Zoe Saldana e Selena Gomez, che insieme a Karla Sofía Gascón, che interpreta Emilia Pérez, costituiscono il cast principale del film, ma anche l’ondata di critiche che dal Messico, in cui è ambientato, ha travolto l’opera, tanto da spingere Audiard a scusarsi durante un’intervista alla CNN. Emilia Pérez, tratto da un romanzo del 2018 dello scrittore francese Boris Razon, è un musical che segue la storia di Manitas Del Monte, boss immaginario dei cartelli della droga che, a un certo punto della propria vita, capisce di essere una persona trans e decide di vivere come una donna, assumendo il nome di Emilia Pérez, appunto.

Ambientato in Messico – anche se il set è stato ricreato in Francia –, il film cerca di avvicinarsi a tematiche come l’empowerment femminile, la violenza dei cartelli, l’alto tasso di scomparsa delle persone nel Paese, oltre che di transizione di genere, esplorando il tutto con numeri musicali sopra le righe. È un’opera di intrattenimento esuberante, in cui i passaggi tra il mondo apparentemente fisico del Messico contemporaneo e quello interiore dei personaggi sono inaspettati e divertenti. Oltre alle accuse di aver alimentato una visione stereotipata e superficiale del Messico e di aver incluso una sola attrice messicana nel cast, però, il film è stato anche commentato per una rappresentazione banale delle persone trans: l’associazione GLAAD ha definito infatti Emilia Pérez “un ritratto profondamente retrogrado”.

No Other Land, di Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham, Rachel Szor

“Ogni ricordo è individuale, irriproducibile, e muore insieme all’individuo”, diceva la scrittrice Susan Sontag nel saggio Davanti al dolore degli altri. “Quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto, per cui ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente”. Il patto a cui siamo chiamati è quello di raccontare e tenere viva la luce su quanto di ingiusto accade nel mondo, evitando che la violenza riduca davvero ogni persona a una cosa, ed è quello che si propone di fare No Other Land, premiato all’ultima edizione della Berlinale e agli European Film Awards 2024 come miglior documentario. Il film, realizzato da un collettivo palestinese-israeliano di quattro giovani attivisti attraverso riprese svolte con i cellulari e camcorder VHS, documenta le violenze subite dalla comunità palestinese da parte delle forze militari israeliane. A Masafer Yatta, la zona collinare al sud di Hebron, Basel Adra è un attivista palestinese che fin da bambino lotta contro l’espulsione forzata della sua comunità dall’occupazione di Israele, documentando la progressiva distruzione dei luoghi della sua vita, mentre i soldati abbattono le abitazioni delle famiglie. È il più grande atto di trasferimento forzato mai realizzato nella Cisgiordania occupata. 

Nel suo percorso, Basel incrocia Yuval, un giornalista israeliano che si unisce alla sua battaglia, e insieme, per oltre dieci anni, si impegnano a contrastare l’espulsione, avvicinandosi sempre di più. La loro connessione è segnata dalla profonda disuguaglianza che li separa: Basel, che vive sotto un’occupazione militare brutale, e Yuval, libero e senza vincoli. “Cosa possiamo fare?”, chiede in una scena Yuval a Basel. “Possiamo solo continuare a filmare”. E così sullo schermo si susseguono le demolizioni, la sofferenza di donne e bambini, le ruspe che demoliscono le scuole, senza concedere troppo spazio a lunghe riflessioni, perché non c’è tempo quando devi salvarti da un proiettile o da una casa che crolla se filmi – ma soprattutto vivi – in una condizione di costante pericolo. No Other Land è così un grido disperato e umano di aiuto, alimentato dalla speranza che possa esistere un tempo di salvezza. Un tempo in cui, come ci ricorda anche il presente della Striscia di Gaza, si possa vivere liberi dall’occupazione.

Maria, di Pablo Larraín

“Sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poi essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia”, scriveva Pier Paolo Pasolini in uno degli innumerevoli versi dedicata all’amica Maria Callas, che aveva voluto nel 1968 come protagonista del suo film Medea. Una sintesi che ben si presta non solo per descrivere lo spirito della soprano, ma anche il racconto che di lei fa il regista cileno Pablo Larraín nella sua ultima pellicola, Maria: Anna Maria Cecilia Sophia Kalogheropoulou, in arte Maria Callas appunto, greca come Medea, abbandonata dal suo uomo, forte in pubblico e fragile nel privato. Dopo aver portato sul grande schermo la first lady Jacqueline Kennedy in Jackie e Lady Diana in Spencer, Larraín conclude infatti la sua trilogia dedicata alle grandi donne del Novecento ricostruendo a modo suo gli ultimi anni di vita di Callas: il rifiuto di cantare ancora in pubblico, la depressione, l’ossessione per i fantasmi del passato, la perdita di un’identità.

Maria si muove tra la routine di quella che è diventata la sua vita quotidiana nel 1977 e ciò che è stato il passato – i teatri in cui si è esibita, l’infanzia segnata dai traumi, l’amore perduto e mai ritrovato. Angelina Jolie, che impersona Callas in una delle sue performance migliori, mai caricaturale, ma interpretando l’essenza della soprano più che il suo personaggio pubblico, è come una fantasma che attraversa i giardini di Parigi, i bar in cui i camerieri la conoscono per essere adulata, il grande appartamento in cui chiede continuamente ai suoi assistenti – interpretati da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, a cui si aggiunge anche un cameo di Valeria Golino – di spostare il pianoforte. E fantasmi sono i personaggi che l’accompagnano in questo raccontare se stessa, visioni dei farmaci che assume. Larraín utilizza così quella che è a volte Maria, a volte La Callas, per esplorare qualcos’altro: il modo in cui si creano i miti, il loro crollo, o di come il privilegio e il successo possano diventare una prigione.

Nosferatu, Robert Eggers

Ci sono storie terribili fatte di spaventi composti semplicemente da lunghissime ombre, attese e silenzi, in cui il terrore non ha bisogno di jumpscare, ma ti si infila sottopelle, sottovoce, come un sussurro che rapisce tutta la tua attenzione. È il caso di Dracula di Bram Stoker. Ora, immaginiamo che qualcuno prenda quell’atmosfera e la riesca davvero a tradurre in un’estetica, come ha fatto Robert Eggers con Nosferatu, un’esperienza ipnotica che mescola il fascino gotico del passato con le capacità digitali del presente, ma in maniera tutt’altro che banale.

Eggers non è nuovo a rileggere i classici con una lente che fruga nell’inconscio collettivo e nei grandi temi del presente, così, anche in questo caso non si limita a rendere omaggio all’omonimo capolavoro cinematografico muto del 1922 di Murnau, o al Nosferatu, il principe della notte, remake di Werner Herzog, ma smonta e ricostruisce il mito. A questo si aggiunge un grande cast, in primis con Willem Dafoe, che qui sembra nato per incarnare il professor Albin Eberhard Von Franz (Van Helsing), affiancato da giovani talenti contemporanei come Bill Skarsgård, il vampiro, il conte Orlok, e Lily-Rose Depp, perfetta per interpretare Ellen Hutter, ovvero Lucy.

Nel 1922, Murnau, che si ispirò liberamente a Dracula, dovette cambiare tutti i nomi dei personaggi, il titolo della storia e i luoghi per evitare problematiche legate al diritto d’autore. Fu comunque denunciato dagli Stoker, perse la causa per violazione del diritto d’autore e venne condannato a distruggere tutte le copie della pellicola, tuttavia riuscì a salvare un’ultima copia “clandestina”, grazie alla quale il film è riuscito a sopravvivere e arrivare ai giorni nostri – diventando uno dei più grandi cult della storia del cinema.

Nosferatu non è solo un horror, è una riflessione sul tempo, sull’immortalità e sulla natura della paura stessa, così come della passione. Eggers, nonostante alcune critiche che non gli sono state come al solito risparmiate, è riuscito a offrirci un film capace di soddisfare le nostre aspettative, dando un’estetica alla nostra immaginazione, prendendo per mano i nostri incubi e permettendoci di goderne al meglio, portandoli sul grande schermo con una poesia crudele, disturbante e al tempo stesso assolutamente irresistibile. Eggers ci ricorda che il vero orrore non sta nei mostri, ma nell’umanità che li genera. 

A Complete Unknown, James Mangold 

Il periodo tra il 1961 e il 1965 ha consacrato l’ascesa di Bob Dylan nella scena folk di New York. Da uno sconosciuto strambo e povero del Minnesota, che possedeva solo la sua chitarra, è diventato la pop star che ha cambiato la storia della musica, arrivando a vincere un Nobel per la letteratura decenni dopo. A Complete Unknown, il film biografico musicale che ha ricevuto otto nomination agli Oscar, esplora proprio questa fase degli inizi di carriera del leggendario cantautore. Il titolo del film è ispirato al ritornello della sua hit più famosa, inno di una generazione, Like a Rolling Stone

Nei panni di Dylan, come noto, l’attore Timothée Chalamet che, tra originalità e imitazione, è riuscito a dare vita a una performance capace di catturare la complessità e il carisma dell’artista, incluse le sue debolezze e piccole meschinità. Per prepararsi al ruolo Chalamet, a ragione tra gli attori più amati della sua generazione, ha imparato a cantare e suonare nello stile di Dylan con una certa naturalezza. Degna di nota anche la performance di Monica Barbaro, nei panni della musicista folk Joan Baez, con cui Dylan ebbe una storia.

Raccontando le prime fasi della sua carriera, il film è incentrato sul talento cristallino e ammaliante di Dylan, di cui nessuna delle persone che incontra sulla sua strada, durante gli inizi a New York, sembra dubitare per un istante – donne incluse, ovviamente. La pellicola, in cui la musica è protagonista assoluta e occupa un minutaggio consistente, rappresenta al meglio il modo in cui, con le sue canzoni ipnotiche, minimali e senza tempo, Dylan intercetta lo spirito della sua generazione, rinnovando il linguaggio musicale e raccontando allo stesso tempo sentimenti universali. 

La regia di Mangold evita l’agiografia e l’enfasi eccessiva sul personaggio, suggerendo un ritratto autentico, che ritrae il protagonista in una quotidianità non sempre comoda. Secondo alcuni critici, tuttavia, la storia è fin troppo edulcorata e non racconta abbastanza gli ostacoli che Dylan incontra lungo la strada verso la fama. Nonostante alcune omissioni, il film riesce comunque a catturare l’essenza dell’icona, a raccontarne l’intensità e a rappresentare momenti di rottura degni di essere raccontati. Nel più importante raduno della scena folk americana, lo storico Newport Folk Festival del 1965, Dylan riesce infatti a cambiare la storia della musica con un gesto all’epoca considerato controverso, eppure rivoluzionario: collegare la chitarra a un amplificatore. Un rischioso avvicinamento del folk “impegnato” al rock’n’roll, visto ancora solo come un fenomeno commerciale. La “svolta elettrica” del giovane poeta, però, cambierà per sempre le carte in tavola.

L'articolo Questi, secondo noi, i migliori film di gennaio 2025 proviene da THE VISION.