A costo zero non è mai una vera riforma
La delega fiscale rende evidente la miopia di un Paese che anziché i generatori di grandi profitti continua a tassare di più il lavoro L'articolo A costo zero non è mai una vera riforma proviene da Economy Magazine.
Vi sono alcune evidenti idiosincrasie, più che lampanti, tra la volontà del Governo di riformare il fisco e ridurre la tasse per il ceto medio e la dichiarata mancanza di risorse che rende la legge delega fiscale una delle tante “riforme a costo zero”, che poi, per forza di cose, vere riforme non sono mai. La prima che appare giusto evidenziare è la miopia con cui nel nostro Paese si cerca di individuare la ricchezza da tassare: è evidente infatti anche al più sprovveduto degli osservatori che sono i colossi del web e i grandi capitali i centri generatori di grandi profitti e volumi di denaro, non più di certo il lavoro, che sia in forma subordinata o autonoma, eppure il fisco è molto, molto più leggero e indulgente con i primi. Tassare la vera ricchezza, al di là delle implicazioni etiche del tema, è soprattutto una questione di rango costituzionale, spiegata bene dall’art.53.
Immediatamente dopo mi chiedo perché, a fronte di entrate sempre più alte di anno in anno nelle casse dello stato, e a fronte di un recupero dell’evasione ogni anno più ingente (secondo i dati ufficiali dell’Agenzia delle Entrate siamo passati da un recupero dell’evasione per il 2023 di 31 mld ai 32,7 mld del 2024), non si assista né alla diminuzione del debito pubblico né a un miglioramento, anche solo percepito, del livello dei servizi offerti dallo Stato. E mi chiedo allo stesso tempo come mai non si proceda ad una razionalizzazione immediata della spesa pubblica, per scongiurare un ulteriore decadimento della qualità dei suddetti servizi o, ancora peggio, vedi capitolo sanità, ad un loro taglio, e per, ricollegandosi al tema iniziale, riuscire davvero a far respirare un ceto medio afflitto dalla più alta pressione fiscale all’interno dei Paesi Ocse.
Analizzando poi più nel dettaglio la riforma i dubbi proliferano. Chi segue l’attività dell’Associazione Nazionale Commercialisti conosce la battaglia che abbiamo combattuto da Giugno scorso contro le modalità, davvero incomprensibili, con cui si è introdotto il concordato preventivo biennale tra gli istituti fiscali del Paese. L’incertezza normativa, il carattere vessatorio e discriminante con cui si è cercato di imporre il concordato ai contribuenti, le modifiche sostanziali arrivate in maggior parte a ridosso della scadenza per l’adesione, sono solo alcuni dei motivi che ci hanno portato a scioperare.
Tra di essi impossibile non citare il minore gettito erariale che il Cpb avrebbe generato, e impossibile inoltre non ricordare quante volte avessimo sottolineato, come Associazione tramite i nostri comunicati e dichiarazioni a mezzo stampa, lo scarso appeal di un istituto che intendeva legare i piccoli e medi imprenditori a previsioni reddituali che abbracciavano due anni fiscali, in uno scenario geo politico ed economico globale che a tutto fa pensare meno che alla stabilità. Nonostante ogni nostra fosca previsione si sia avverata, ad aderire è stato meno del il 13% dei contribuenti (nonostante la riapertura dei termini al 12 Dicembre), e il Governo dichiara ancora che il CPB è lo strumento del futuro, e che alla fine conquisterà anche gli scettici, sinceramente ci risulta difficile pensarlo. Anzi siamo convinti che la distanza tra le aspettative del Governo e il gradimento dei contribuenti nei confronti del CPB aumenterà, interviene infatti su redditi presunti e calcolati con metodo statistico/induttivo, ed è uno strumento attraente solo per quelle aziende certe di un reddito crescente nei due anni oggetto della firma dell’accordo: un ulteriore fallimento purtroppo sembra già annunciato.
Una proposta per migliorarlo però ci sarebbe, ovvero rendere il concordato fluido, trattabile, negoziabile, in modo tale che il contribuente non si trovi di fronte al bivio adesione/rifiuto, una soluzione tra l’altro prevista da una delle primissime versione del CPB, in cui era previsto anche un contraddittorio tra agenzia delle entrate e cittadino.
Ancora, perché si continua a sostenere che lo strumento dell’autotutela è stato potenziato con la riforma, e che nei casi dell’obbligatorietà per gli atti nulli emessi dalla P/A (errori di calcolo o scambio di persone) il contribuente non avrà alcun danno anche una volta scaduto il termine per l’impugnazione? Si dovrebbe semmai evitare di omettere il fatto che scaduto quel termine il
contribuente avrà un anno di tempo per annullare l’atto, e che trascorso tale temine l’atto, seppur nullo dall’origine, non verrà più annullato in autotutela e il contribuente dovrà pagare comunque ciò che non sarebbe dovuto. Tutto ciò dovuto al cambio di classificazione degli atti da nulli ad annullabili.
Perplessità suscita il quadro complessivo fin qua prodotto dall’attuazione della delega fiscale in riferimento ai 3 principi dichiarati punti chiave della riforma, ovvero: 1-riequilibrio del rapporto tra stato e cittadino 2-semplificazione 3-lotta all’evasione, che sembrano essere dimenticati…
Per quanto riguarda il primo punto, come abbiamo visto con il CPB, stiamo assistendo all’eliminazione del contraddittorio, del dialogo dunque, nel rapporto tra AdE e contribuente, un rapporto dunque destinato ad essere sempre meno equilibrato a vantaggio della pubblica amministrazione. Stiamo assistendo inoltre all’emanazione di norme con effetto retroattivo, errori della P/A per i quali continua a pagare il contribuente, difficoltà di accesso agli uffici da parte dell’utenza qualificata, mancato rispetto di altre norme fondamentali contenute nello Statuto del Contribuente, e molti altri casi che di equilibrato hanno davvero ben poco.
In riferimento invece alla semplificazione, purtroppo nulla è stato introdotto ad oggi nel panorama fiscale. Nessun adempimento è stato eliminato anzi ne sono stati introdotti dei nuovi. Noi commercialisti siamo i principali testimoni (molti di noi hanno passato Agosto in ufficio a spiegare il CPB ai propri clienti) e vittime di quello che era stato annunciato quale il miglior calendario fiscale della nostra storia. Viceversa, quello del 2024, si è rilevato il calendario fiscale peggiore di sempre. Infatti oltre ad esser mantenuti adempimenti come lo split payment, il reverse charge, il modello 770, le liquidazioni periodiche iva, il modello Intra (tutti adempimenti che con l’entrata in vigore della fattura elettronica dovevamo essere eliminati) si è ulteriormente “arricchito” degli adempimenti legati al CPB. In attesa di un 2025, incredibile a dirsi, ancora peggiore dal punto di vista dell’ingolfamento delle scadenze.
Concludendo con la lotta all’evasione, al di là dei temi sopra-elencati, si fa fatica a comprendere che tipo di lotta all’evasione sia quella con cui si diminuisce il contrasto di interessi invece che potenziarlo. I tagli alle deduzioni e alle detrazioni non vanno a nostro avviso nella giusta direzione anche considerati i risultati fino ad oggi raggiunti con i metodi tradizionali.
Buon 2025.
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