Le cose giuste da fare, secondo Donald Trump
Era il febbraio del ’45: i giorni di Yalta, 80 anni fa. A sir Winston Churchill venne chiesto come andavano le trattative e se Franklin Delano Roosevelt ormai fiaccato dalla malattia - sarebbe morto di lì a poco - tenesse testa a Stalin. Il premier inglese rispose: «Gli Stati Uniti fanno sempre la cosa giusta, dopo che hanno esaurito tutte le alternative». Eppure a sentire i salotti buoni europei Donald Trump, quarantasettesimo presidente americano, si comporta da folle: minaccia e fa cose orribili, dice cose inascoltabili.Persi nelle nebbie burocratiche i vertici europei e ammantata di «luogocomunismo», molta della sinistra giudica l’agenda del presidente Usa come una sciagura: hanno la memoria corta perché il tycoon, che si è preso una delle più clamorose rivincite politiche della storia, segue la cosiddetta «politica del pazzo». Elaborata da Mose Sharret, primo ministro israeliano, fu adottata da Richard Nixon per rendere imperscrutabile la propria strategia estera. Ma è un pacifista della sinistra radicale come Avram Noam Chomsky a ispirare Donald Trump. Nel rapporto StratCom dell’anno Duemila, presidente Bill Clinton, Chomsky scriveva: «Il fatto che gli Stati Uniti possano diventare irrazionali e vendicativi, nel caso che i loro interessi vitali siano attaccati, dovrebbe far parte dell’immagine che diamo in quanto nazione. È altamente positivo per la nostra condotta che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo».Washington ha capito che il nemico ora è Pechino, quella Cina che proprio Clinton con la collaborazione «miope» di Romano Prodi, allora capo della Commissione europea, fece entrare nel 2001 nel Wto senza condizioni. Organizzazione mondiale del commercio che oggi Trump mette in discussione perché - con una forte componente africana - è troppo sbilanciata verso la Cina. Questa guerra non si fa con i missili, ma con il dollaro. Minacciare dazi, impostare rapporti bilaterali, muoversi da pacificatore per ridare stabilità al mondo, chiedere, o forse imporre, a Jerome Powell di abbassare i tassi per raffreddare il superdollaro ed esportare al massimo, chiamare investimenti, sostenere le piccole e medie imprese, rompere le gabbia di istituzioni ritenute ostili come l’Organizzazione mondiale della sanità o la Conferenza del clima con gli eco-accordi di Parigi ha un solo scopo: mettere il Dragone in subordine decretando la fine della globalizzazione. Xi Jinping non ha mai nascosto di voler festeggiare nel 2049 il secolo della Repubblica popolare, con due traguardi: l’annessione di Taiwan conquistandone l’alta tecnologia (vuole invadere l’isola entro il 2027) e superare l’economia Usa.Nello stesso schema di contrasto alla potenza asiatica rientra mirare alla Groenlandia e pretendere che il Canale di Panama, da cui transitano 14 mila navi all’anno, torni a essere libero e non sotto controllo cinese. Trump è convinto che per mettere Pechino in scacco controllando anche l’espansionismo dei Brics che sono una rampa di lancio del Dragone (da qui l’alleanza di ferro con il presidente argentino Javier Milei, scambiata per costruzione di una destra globale) bisogna attaccarne gli interessi vitali. Ciò che stupisce è che l’Europa, ormai provincia in un’economia planetaria, faccia il tifo più per la Repubblica popolare che per l’America dove la democrazia e soprattutto la libertà sono valori non negoziabili. Che sia così lo dimostra l’irritata reazione della presidente della Commissione europea, che ha risposto stizzita alla minaccia dei dazi di Trump; Ursula von der Leyen dal recente consesso di Davos ha fatto sapere: il mio primo viaggio sarà in India, cioè possiamo guardare a est. Anche verso la Cina, dunque. Peccato però che quest’ultima sia il primo alleato della Russia. L’Unione europea dalle continue contraddizioni è di fatto in guerra con Vladimir Putin pagando carissima, in particolare la Germania, la mancanza del gas a prezzi di saldo. In più l’Ue è legata a doppio filo agli Usa nella Nato, con Trump che giustamente rivendica parità di sforzo economico nella difesa.L’Europa, però, di queste risorse non dispone (5 per cento del Pil in spese militari significano 850 miliardi di euro) e così «scatta l’articolo quinto»: chi ha i danè ha vinto! Che lo scontro sia tra Usa e Cina, con il Vecchio continente ininfluente, lo dimostra quanto accaduto il 27 gennaio scorso a Wall Street. Un apparente «nerd» cinese, Liang Wenfeng ha messo al tappeto le Big tech (Nvidia ha perso in un giorno il 17 per cento della capitalizzazione: quasi 600 miliardi di dollari), presentando la sua applicazione di intelligenza artificiale DeepSeek. Donald Trump con i signori della tecnologia, Elon Musk in testa, ha lanciato il programma Starlink: 500 miliardi di dollari per portare al massimo l’Ia e le comunicazioni satellitari. Un giovane cinese, grazie a un limitato investimento, fa crollare questa narrazione e ora il dilemma è: l’Intelligenza artificiale è il business del futuro o la riedizione della bolla speculativa delle do
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Era il febbraio del ’45: i giorni di Yalta, 80 anni fa. A sir Winston Churchill venne chiesto come andavano le trattative e se Franklin Delano Roosevelt ormai fiaccato dalla malattia - sarebbe morto di lì a poco - tenesse testa a Stalin. Il premier inglese rispose: «Gli Stati Uniti fanno sempre la cosa giusta, dopo che hanno esaurito tutte le alternative». Eppure a sentire i salotti buoni europei Donald Trump, quarantasettesimo presidente americano, si comporta da folle: minaccia e fa cose orribili, dice cose inascoltabili.
Persi nelle nebbie burocratiche i vertici europei e ammantata di «luogocomunismo», molta della sinistra giudica l’agenda del presidente Usa come una sciagura: hanno la memoria corta perché il tycoon, che si è preso una delle più clamorose rivincite politiche della storia, segue la cosiddetta «politica del pazzo». Elaborata da Mose Sharret, primo ministro israeliano, fu adottata da Richard Nixon per rendere imperscrutabile la propria strategia estera. Ma è un pacifista della sinistra radicale come Avram Noam Chomsky a ispirare Donald Trump. Nel rapporto StratCom dell’anno Duemila, presidente Bill Clinton, Chomsky scriveva: «Il fatto che gli Stati Uniti possano diventare irrazionali e vendicativi, nel caso che i loro interessi vitali siano attaccati, dovrebbe far parte dell’immagine che diamo in quanto nazione. È altamente positivo per la nostra condotta che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo».
Washington ha capito che il nemico ora è Pechino, quella Cina che proprio Clinton con la collaborazione «miope» di Romano Prodi, allora capo della Commissione europea, fece entrare nel 2001 nel Wto senza condizioni. Organizzazione mondiale del commercio che oggi Trump mette in discussione perché - con una forte componente africana - è troppo sbilanciata verso la Cina. Questa guerra non si fa con i missili, ma con il dollaro. Minacciare dazi, impostare rapporti bilaterali, muoversi da pacificatore per ridare stabilità al mondo, chiedere, o forse imporre, a Jerome Powell di abbassare i tassi per raffreddare il superdollaro ed esportare al massimo, chiamare investimenti, sostenere le piccole e medie imprese, rompere le gabbia di istituzioni ritenute ostili come l’Organizzazione mondiale della sanità o la Conferenza del clima con gli eco-accordi di Parigi ha un solo scopo: mettere il Dragone in subordine decretando la fine della globalizzazione. Xi Jinping non ha mai nascosto di voler festeggiare nel 2049 il secolo della Repubblica popolare, con due traguardi: l’annessione di Taiwan conquistandone l’alta tecnologia (vuole invadere l’isola entro il 2027) e superare l’economia Usa.
Nello stesso schema di contrasto alla potenza asiatica rientra mirare alla Groenlandia e pretendere che il Canale di Panama, da cui transitano 14 mila navi all’anno, torni a essere libero e non sotto controllo cinese. Trump è convinto che per mettere Pechino in scacco controllando anche l’espansionismo dei Brics che sono una rampa di lancio del Dragone (da qui l’alleanza di ferro con il presidente argentino Javier Milei, scambiata per costruzione di una destra globale) bisogna attaccarne gli interessi vitali. Ciò che stupisce è che l’Europa, ormai provincia in un’economia planetaria, faccia il tifo più per la Repubblica popolare che per l’America dove la democrazia e soprattutto la libertà sono valori non negoziabili. Che sia così lo dimostra l’irritata reazione della presidente della Commissione europea, che ha risposto stizzita alla minaccia dei dazi di Trump; Ursula von der Leyen dal recente consesso di Davos ha fatto sapere: il mio primo viaggio sarà in India, cioè possiamo guardare a est. Anche verso la Cina, dunque. Peccato però che quest’ultima sia il primo alleato della Russia. L’Unione europea dalle continue contraddizioni è di fatto in guerra con Vladimir Putin pagando carissima, in particolare la Germania, la mancanza del gas a prezzi di saldo. In più l’Ue è legata a doppio filo agli Usa nella Nato, con Trump che giustamente rivendica parità di sforzo economico nella difesa.
L’Europa, però, di queste risorse non dispone (5 per cento del Pil in spese militari significano 850 miliardi di euro) e così «scatta l’articolo quinto»: chi ha i danè ha vinto! Che lo scontro sia tra Usa e Cina, con il Vecchio continente ininfluente, lo dimostra quanto accaduto il 27 gennaio scorso a Wall Street. Un apparente «nerd» cinese, Liang Wenfeng ha messo al tappeto le Big tech (Nvidia ha perso in un giorno il 17 per cento della capitalizzazione: quasi 600 miliardi di dollari), presentando la sua applicazione di intelligenza artificiale DeepSeek. Donald Trump con i signori della tecnologia, Elon Musk in testa, ha lanciato il programma Starlink: 500 miliardi di dollari per portare al massimo l’Ia e le comunicazioni satellitari. Un giovane cinese, grazie a un limitato investimento, fa crollare questa narrazione e ora il dilemma è: l’Intelligenza artificiale è il business del futuro o la riedizione della bolla speculativa delle dot-com d’inizio millennio? Pensare poi che Liang Wenfeng abbia fatto tutto da solo è quasi fantascienza. Il regime di Pechino, è chiaro, sa e dispone.
Si capisce anche perché Musk, e gli altri magnati della Silicon Valley, siano decisivi: la sfida con la Cina è giocata in larga parte sul ring tecnologico. A mettere in orbita un sistema satellitare l’Europa impiegherà, a essere ottimisti, una decina di anni ed è curioso constatare che l’Italia, con Sirio, fu il primo Paese lanciare nel ’64 un satellite per telecomunicazioni a bassa frequenza (gli stessi di Musk) e se Romano Prodi non avesse smontato per fare un piacere a Umberto Agnelli Telecom-Telespazio chissà dove saremmo ora. Ma in Italia è vietato avere certi ricordi; come è sconveniente dire che a scommettere su Musk è stato anche un ambiente vicino al Pd. Elly Schlein agita il fascismo perché il magnate sudafricano attraverso X (l’ex Twitter) condiziona il mondo e il voto. Ebbene, a lui, per conquistare quel social network una mano - ridotta date le forze in campo, ma sempre dell’1 per cento delle azioni si parla - gliel’ha fornita Unipol. È il gruppo controllato da un pool di cooperative - il pacchetto più grande lo detiene Coop Alleanza 3.0 - che con il Partito democratico ha proficui rapporti. Si preferisce però attaccare la Meloni, che ha il torto di avere ottime relazioni con Musk e Trump, e che sta cercando di evitare i dazi sul Made in Italy e anche sull’Europa. La premier viene snobbata perché non rappresenta la Ue.
Teresa Ribera, spagnola vicepresidente con «delega verde», di fronte all’affermazione del presidente americano che il Green deal è un inganno reagisce e scomunica l’italiana Meloni. Si dà il caso, però, che per Trump l’Ue - in quanto Bruxelles - non esista anche se la presidente del Consiglio italiano insiste per una mediazione e trova in Volodymir Zelensky un inatteso alleato. Il leader ucraino ha affermato: «Lei è un canale con Trump utile alla Ue e spero a noi». E certo l’idea del presidente Usa è di mettere attorno a un tavolo Mosca e Kiev al più presto. Da Putin non è arrivato un no e anche Zelensky - incalzato dai suoi generali che danno per persa la guerra - ci pensa. L’apparente, folle idea di lavorare sul prezzo del petrolio per avviare una trattativa costringendo Mosca è uno dei punti di forza del tycoon, che non nasconde di voler far diventare gli Usa primo fornitore di energia al mondo. Chi comunque si agita a ripetere che tra gli obiettivi di Trump ci sia quello di lasciare fuori dai giochi l’Europa, non conosce i numeri. È l’Europa che, da sola, si è messa fuorigioco. Il Pil Usa vale 29 mila miliardi di dollari e cresce al 2,9 per cento con un disavanzo commerciale di circa 800 miliardi di dollari; quello cinese sfiora i 19 mila miliardi di dollari e cresce al 5 per cento con un surplus commerciale arrivato quest’anno a 990 miliardi, quello europeo vale 18 mila miliardi e cresce dello 0,9 per cento con un surplus commerciale di appena 38 miliardi. E la signora Christine Lagarde dalla Banca centrale sarà costretta a tagliare i tassi se non vuole ulteriormente aggravare la posizione europea: è certo infatti che Trump chiederà alla Federal Reserve di abbassare il costo del denaro.
La sua politica dei dazi per quel che riguarda l’Europa ha un obiettivo primario: limitare la Germania. Ed è per questo che la tedesca Ursula von der Leyen è nervosa e ripete il mantra che ciò che fa male a Berlino danneggia l’Unione. I sostenitori di quest’idea dimenticano due circostanze: la prima è come è nata l’Europa odierna, la seconda è che la Germania da almeno un quarto di secolo mette dazi indiretti agli altri Paesi continentali. E si torna a Yalta. Gli Stati Uniti compresero che si dovesse limitare l’Unione Sovietica e impedire all’ex potenza tedesca di riarmarsi: la soluzione fu creare l’Europa. Da qui il piano Marshall e i trascorsi 75 anni di storia. Solo che oggi questa realtà politica è per gli Usa un problema, perché un problema è la Germania.
Berlino ha mantenuto costante per 20 anni il surplus commerciale, danneggiando le altre economie europee e facendo concorrenza all’America. A dati di oggi, il 7 per cento annuo di tale surplus vale 315 miliardi di euro, che il Paese ha intascato vendendo auto Mercedes e Volkswagen, frenando i consumi interni e dunque le sue importazioni e gonfiando il risparmio. Scriveva - ai tempi della prima presidenza Trump - il settimanale The Economist: «Che una grande economia in condizioni di piena occupazione accumuli surplus commerciali dell’8 per cento di Pil all’anno comporta un’esagerata tensione sul sistema di commercio globale. Per compensare tali surplus e al fine di mantenere i posti di lavoro, il resto del mondo deve indebitarsi e spendere in uguale misura. In alcuni Paesi, come Italia, Grecia e Spagna, i deficit alla fine hanno portato alla crisi». I difensori dell’Europa contro i dazi di Trump sono tifosi della Germania la quale, mentre flirta con la Cina, archivia quest’anno - l’agenzia Reuters ha fatto i conti - un attivo record con gli States di 65 miliardi di euro (nel 2023 i miliardi sono stati 63,3). Certo il miliardario Trump non sta simpatico a molti, ma il suo «America First» pare la profezia di Churchill: gli Usa fanno la cosa giusta, dopo aver esaurito le alternative.