La psicologa palestinese: "Ogni giorno sfido i posti di blocco. Solo così aiuto i bambini malati"

Farah Fatafta, 26 anni, lavora nell’unico reparto pubblico di oncologia per l’infanzia in Cisgiordania "I ragazzi ricoverati si sentono doppiamente intrappolati: dal tumore e dall’occupazione militare".

Feb 3, 2025 - 06:40
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La psicologa palestinese: "Ogni giorno sfido i posti di blocco. Solo così aiuto i bambini malati"

Nitrosi

Farah Fatafta ha 26 anni e vive in un villaggio vicino a Hebron, nella Cisgiordania occupata da Israele. É una psicologa assunta da Soleterre e ogni giorno deve raggiungere il Beit Jala Governmental Hospital, a Betlemme, l’unico ospedale pubblico in Palestina per la cura del cancro infantile e delle patologie pediatriche croniche. Non sa mai se e quando arriverà, perché ogni giorno è costretta allo slalom tra i check point dei militari di Tel Aviv. E non importa se si occupa dei bambini malati. "In qualsiasi parte del mondo un operatore sanitario ha il permesso per muoversi, anche nelle zone di conflitto. Qui no", sospira.

I soldati la possono fermare anche se va in ospedale?

"Mi hanno fermato anche se accompagnavo i bambini. Io vivo a 30 chilometri da Betlemme. La prima settimana di lavoro non mi hanno mai lasciata passare e ho dovuto lavorare da casa, al computer, senza incontrare i bambini. Sono stati bloccati anche i pazienti con appuntamenti per la chemioterapia".

Ogni giorno una trattativa?

"Se il posto di blocco è chiuso, devi tornare a casa o cercare un altro gate aperto. Se ci sono i soldati provi a parlare con loro. Una madre che portava la figlia in ospedale per la chemio ha avuto il coraggio di avvicinarsi a una soldatessa per mostrare il referto. Niente da fare. È rimasta scioccata".

Come reagisce in questi casi?

"Abbiamo molta resilienza, è ciò che ci fa andare avanti. Io sono diventata flessibile, all’inizio mi arrabbiavo, ma ora se il soldato mi dice di tornare indietro, metto la mia musica, aspetto al posto di blocco per ore e leggo un libro, aspettando che aprano. Sono diventata come i miei bambini che imparano a essere pazienti: prima giocavano in strada e ora devono rimanere chiusi in una stanza senza interagire con nessuno. E se sono arrabbiata, trovo modi sani per esprimere la rabbia".

Quali sono i traumi di questi bambini? Che cosa le dicono?

"Alcuni bambini rimangono ricoverati in ospedale per più di 40 giorni. Può capitare che vengano per un appuntamento e restino per evitare di trovare i posti di blocco chiusi. Questa sensazione li fa sentire doppiamente intrappolati: a causa della malattia e a causa delle chiusure".

I bambini come reagiscono?

"A volte pensano che a provocare la malattia siano stati i soldati. Alcuni bambini che hanno vissuto lo choc dell’irruzione dei militari nelle case, e che poco tempo dopo hanno ricevuto la diagnosi della malattia, mettono in correlazione le due cose. Anche le madri credono che il cancro possa essere causato dal trauma".

Ma ci sono studi sulle cause delle malattie oncologiche dei bambini in Palestina?

"Non sono a conoscenza di studi relativi alla Palestina. Ho solo notato è che molti bimbi arrivano dalla zona di Yata, non lontano dal deserto di Al-Maqab, dove si trova il sito nucleare di Dimona. Ma è solo una constatazione, non ci sono studi o ricerche".

Che cosa le chiedono i bimbi?

"Vogliono giocare. E domandano: “Perché mi sono ammalato io? Morirò? Perderò i capelli? I miei fratelli avranno paura di me? Con loro faccio terapia di gioco, basata sull’espressione e la regolazione delle emozioni. Uso anche la narrazione".

Che cosa si porta dentro quando torna a casa?

"Ogni volta che mi sento bloccata o non riesco a smettere di pensare a un bambino, vedo il grande scopo dietro il mio lavoro: sono qui per aiutarli. E se mi blocco chiedo una supervisione discuto con il mio team".

La sua famiglia ha sofferto a causa dell’occupazione?

"Nel mio villaggio di solito non vediamo soldati. Ma quando sono andata all’Università di Bir Zeit a 18 anni un giorno mi sono svegliata con un soldato che mi strappava via la coperta. Quando ho aperto la stanza, il dormitorio era pieno di soldati. Erano venuti ad arrestare una ragazza, un’attivista che viveva nello stesso edificio. Pensavo che mi avrebbero portato via, uno choc".

Il senso di ansia è aumentato dopo il 7 ottobre e Gaza?

"L’80% dei palestinesi lavorava nelle terre occupate da Israele. Dopo il 7 ottobre sono stati tutti rispediti in Cisgiordania e hanno perso la loro unica fonte di reddito. Ci sono persone che vengono in ospedale e non hanno soldi per i trasporti o per comprare beni di prima necessità. E poi è cresciuta l’ansia delle madri che non sanno se potranno venire in ospedale".

Dopo la guerra a Gaza e migliaia di morti, è possibile che i due popoli possano convivere?

"Non ho una risposta perché mi pongo la stessa domanda. Non mi chiedo come vivremo tra noi, ma cosa succederà nel futuro. Il cessate il fuoco a Gaza è un passo positivo verso la riduzione della violenza immediata, ma credo che ci siano ancora sfide profonde da superare. Anche se può portare un sollievo temporaneo, non sono sicura che cambierà la situazione generale in Cisgiordania immediatamente, poiché ci sono questioni politiche e umanitarie da affrontare".

E gli effetti sull’assistenza ai bambini?

"La pace è cruciale, ma restano le interruzioni e la pressione sulle risorse sanitarie nella regione. Per questo serve un sostegno sistemico più ampio per migliorare veramente le loro vite e i risultati sanitari".