Il mito del "posto fisso" e la crisi attuale del pubblico impiego
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Come mai siamo passati dal cosiddetto mito del “posto fisso” all’attuale crisi del pubblico impiego, con un costante abbandono della corsa ai concorsi pubblici dei decenni passati?
“Il posto fisso è sacro!”, diceva l’arrabbiatissimo senatore Binetto (alias Lino Banfi) nel film Quo vado. Ed effettivamente, in Italia da sempre vige il mito del “posto fisso”, frutto di condizioni indubbiamente vantaggiose per i dipendenti pubblici rispetto a quelli privati.
Tuttavia, negli ultimi anni il settore pubblico italiano è stato caratterizzato da una progressiva erosione della propria attrattività, determinata da un insieme di fattori strutturali ed economici.
La crisi del pubblico impiego si manifesta con un numero crescente di dimissioni volontarie, concorsi deserti e una difficoltà crescente nell’attrarre nuove risorse da inserire nell’enorme macchina della Pubblica Amministrazione italiana.
Un dato emblematico emerge ad esempio dall’area metropolitana di Milano, dove tra il gennaio 2023 e il giugno 2024 oltre 6.000 dipendenti pubblici hanno lasciato il posto di lavoro. A questi numeri, sicuramente allarmanti, si aggiunge il mancato turnover a seguito dei pensionamenti. Complessivamente, nel periodo 2022-2023 il pubblico impiego ha registrato una riduzione del 15% del personale, con un effetto diretto sulla qualità dei servizi essenziali, dalla sanità all’istruzione.
Cause della crisi del pubblico impiego
Le cause principali di questa crisi sono riconducibili a diversi fattori.
Stipendi pubblici sempre meno competitivi
In primo luogo, il fattore sicuramente più incisivo è la retribuzione: gli stipendi dei dipendenti pubblici, specie nelle aree metropolitane del Nord, risultano sempre meno competitivi rispetto al settore privato e purtroppo insufficienti a consentire di affrontare un costo della vita che, giorno per giorno, diventa sempre più elevato.
Per capirci meglio, a Milano un impiegato pubblico guadagna mediamente 125 euro al giorno, una cifra quasi identica a quella percepita dai colleghi di altre regioni, ma nettamente inferiore rispetto agli stipendi medi del settore privato locale, che si attestano sui 133 euro al giorno. Questo divario retributivo, unito all’esplosione dei prezzi delle abitazioni, rende economicamente insostenibile per molti lavoratori pubblici trasferirsi nelle grandi città, spingendoli a rinunciare al posto ottenuto tramite concorso o a dimettersi dopo pochi anni.
Rigidità del sistema e complessità delle assunzioni
Un altro elemento critico è la rigidità del sistema pubblico, caratterizzato da progressioni di carriera lente, vincoli di bilancio che limitano le assunzioni e strutture spesso obsolete.
Alcuni giorni fa, in un precedente articolo abbiamo trattato del grave problema relativo agli enormi ritardi nell’erogazione del Tfr/Tfs dei dipendenti pubblici e, in particolare, del blocco degli anticipi delle indennità. Una situazione particolarmente critica, alla quale il legislatore, nonostante l’autorevole intervento della Corte Costituzionale, sembra non voler porre rimedio e che non fa che incrementare il divario – a dire il vero, già abbastanza ampio – tra i trattamenti riconosciuti ai dipendenti del settore privato e quelli del settore pubblico, rendendo così quest’ultimo di gran lunga meno attrattivo.
Complessità delle procedure concorsuali
A ciò si aggiunge la complessità delle procedure concorsuali, spesso lunghe e inefficienti, che non garantiscono un ricambio immediato del personale. Non sorprende, quindi, che solo il 70% dei posti messi a concorso venga effettivamente coperto e che in alcuni settori, come la sanità, si registrino tassi di dimissioni allarmanti: negli ultimi quattro anni, 23.000 infermieri hanno lasciato le strutture pubbliche, con un picco del 50% di dimissioni a Bologna.
Un altro dato riguarda le rinunce post-assunzione. Nella maggior parte dei casi infatti, i candidati, al momento della presentazione della domanda per partecipare al concorso, non conoscono con certezza quale sarà la propria sede di destinazione, la quale dunque potrebbe anche trovarsi in una regione diversa dalla propria.
Ebbene, spesso si assiste a situazioni in cui i vincitori, assegnati a sedi lontane dalla propria regione di appartenenza, sono costretti a rinunciare al posto di lavoro. In alcuni casi, effettuando un bilanciamento tra la retribuzione ottenuta e le spese da sostenere per vivere in un’altra regione, ci si accorge che la spesa non vale l’impresa.
L’impatto dell’innovazione tecnologica
Nel contesto attuale, anche l’impatto dell’innovazione tecnologica rappresenta una variabile cruciale: secondo una ricerca del Forum PA, il 57% dei dipendenti pubblici sarà fortemente esposto all’integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi lavorativi. Sebbene per l’80% di questi lavoratori l’IA rappresenti un’opportunità di miglioramento, circa 200.000 dipendenti potrebbero essere sostituiti a causa dell’automazione di mansioni ripetitive, con un impatto significativo nelle amministrazioni centrali e negli enti fiscali.
Il ministro della Pubblica Amministrazione Zangrillo ha confermato che nei prossimi anni sono previste 170.000 assunzioni all’anno, ma ha anche riconosciuto che queste basteranno solo a sostituire chi andrà in pensione, senza risolvere il problema strutturale della carenza di organico. La digitalizzazione e la valorizzazione del merito saranno elementi chiave per rendere il settore pubblico nuovamente attrattivo, evitando il rischio di una “decrescita infelice” che, senza un’inversione di tendenza, potrebbe portare a un vero e proprio tracollo del sistema pubblico nei prossimi anni.
L’allerta per le istituzioni
La crescente fuga dal pubblico impiego rappresenta un segnale d’allarme che le istituzioni non possono più ignorare. Il divario tra settore pubblico e privato si amplia, non solo in termini retributivi, ma anche per quanto riguarda opportunità di crescita, riconoscimento professionale e qualità delle condizioni di lavoro. Se da un lato il privato offre maggiore dinamismo e incentivi economici competitivi, dall’altro il pubblico impiego appare sempre più appesantito da rigidità burocratiche e scarsi riconoscimenti retributivi.
La questione centrale, però, è il ruolo dello Stato come datore di lavoro, che sembra non rendersi conto della direzione che sta prendendo la macchina amministrativa. La mancata valorizzazione del capitale umano pubblico non è solo un problema per i singoli lavoratori, ma una minaccia per l’efficienza stessa della Pubblica Amministrazione e, di conseguenza, per la qualità dei servizi offerti ai cittadini.
La fuga dal posto fisso è sintomo di una crisi più profonda che chiama in causa la volontà politica di tutelare chi serve lo Stato. È davvero sostenibile, nel lungo periodo, un’amministrazione pubblica che non investe nei propri dipendenti? E soprattutto, quanto ancora si potrà ignorare un problema che mina la stessa tenuta del sistema?
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