I miei ottant’anni: “Sono diventato Bobby Solo per un no di mio padre”

Il bluesman italiano si racconta alla vigilia del compleanno e annuncia un disco. “In Rai portai Elvis e fui stroncato. Papà mi diffidò dall’uso del cognome”

Feb 3, 2025 - 06:40
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I miei ottant’anni: “Sono diventato Bobby Solo per un no di mio padre”

Roma, 3 febbraio 2025 – "Non avrò tanta vita davanti, ma una molto bella alle spalle", scherza, neppure tanto, Roberto Satti, pardon Bobby Solo, ottant’anni il 18 marzo prossimo, parlando di un compleanno che gli regala a primavera un sogno della vita: una raccolta di cover per voce e chitarra come i grandi bluesman americani.

Bobby, com’è nata la sua passione per la musica d’Oltreoceano?

"All’età di 14 anni m’innamorai di una bella biondina, Betsy McGovern, figlia del corrispondente da Roma del New York Herald Tribune, con cui non mi sono mai neppure baciato. Fu lei la prima a parlarmi di Elvis. Ignaro su chi fosse, cercai d’informarmi con la mia sorellastra Fiorenza (nata dal primo matrimonio di mia mamma con un pilota di guerra abbattuto dalla Raf nel ’43), spostata con un cardiologo del Minnesota. Fiorenza mi spedì dagli Usa un pacchetto con dentro tre long playing e cinque 45 giri di Presley e io, folgorato da ‘Love me tender’, per farmi piacere a Betsy mi feci crescere il ciuffo come il suo idolo. Ma lei mi rinfacciò di non saper suonare la chitarra, così imparai quattro accordi alla buona. Gli stessi su cui avrei poi scritto ‘Una lacrima sul viso’".

Presley, il riferimento artistico assoluto della sua vita.

"Elvis ha iniziato la sua avventura a 19 anni come me, nel ’64, grazie alla ‘Lacrima’. Sono stato a Tupelo, Mississippi, dov’è nato dall’unica famiglia bianca di Old Santillo Road, il quartiere afroamericano più povero della città in una baracca di legno di 35 metri quadrati. Lì il futuro The King ascoltava alla radio bluegrass, rhythm’n’blues, jazz, country e aveva a meno di cento metri di distanza una chiesa battista dove, già all’età di 8 anni, si rifugiava ad ascoltare gospel, divenuto la sua passione".

Fra i suoi idoli c’è pure Johnny Cash, molto vicino al mood di questo album in arrivo.

"L’ho conosciuto nel ’67, in Germania. Con l’etichetta Bear Family Records misi a segno 30 successi in tedesco vendendo 2milioni e mezzo di copie senza capire una sola parola di quel che cantavo. A quella gente, però, piacevo, perché con la mia voce suadente smussavo le asprezze della loro lingua. Nel ’67, a Francoforte, il mio discografico Bernhard Mikulski mi propose di andare ad ascoltare Cash che si esibiva alla base di Rammestein. Il Mito era un uomo alto un metro e 90 con addosso un cappottone di pelle nera da gringo e una mano gigantesca, una bistecca alla fiorentina in cui misi la mia senza spiccicare parola per l’emozione".

Non è facile far blues in Italia.

"Una delle mie fortune si chiama Red Ronnie. Oltre ad essere mio testimone di nozze, infatti, da 40 anni Red mi permette di cantare rock, jazz, blues e country nelle sue trasmissioni, mentre la Rai insiste sul fatto che se non tiro fuori ‘Una lacrima sul viso’, ‘Zingara’, ‘Se piangi se ridi’ o ‘Non c’è più niente da fare’ l’audience scende. Nessuno domanda se, dopo 60 anni, la gente non possa avere un po’ a noia certe hit. Mio vero e proprio santo di riferimento, Red, una volta al Roxy Bar, m’ha pure fatto pure cantare con Tom Jones. Un onore".

Ce l’ha ancora un sogno da realizzare?

"Vorrei incidere anch’io un album gospel. I canti di chiesa danno energia e sono convinto che canzoni di quel tipo piacerebbero pure ai più giovani, avvicinandoli alla chiesa".

Suo padre Bruno non è mai venuto ad un suo concerto.

"Ero minorenne e papà, colonnello dell’Aeronautica divenuto manager Alitalia, diffidò la Ricordi ad utilizzare il suo cognome sui miei dischi. Così il mio discografico Vincenzo Micocci disse che avrei dovuto chiamarmi solo Bobby. Bobby Solo saltò fuori per un fraintendimento con la segreteria. Quando però papà ascoltò la ‘Lacrima’ disse in triestino stretto a mia mamma ‘Mariolina, che bela che xe sta canzón!’ e lei ‘ma Bruno, xe tuo fio…’. Papà non veniva ai concerti, ma mamma sì. E quando prendevo qualche chilo di troppo era la prima a raccomandarsi: ‘Robertin, no te pol incoconarte cussi, te devi esser bel come Julio Iglesias’".

Fu proprio mamma Maria a farle avere la prima audizione.

"Era compagna di bridge della moglie di Giuseppe Patroni Griffi e un giorno le chiese se il marito poteva procurarmi audizione in Rai. Avevo 15 anni. Mi presentai in studio tutto sudato, con la mia chitarrina per cantare un pezzo un po’ moscio di Elvis, ‘Old shep’, la storia di un vecchio cane che lascia questo mondo tra le lacrime del suo padroncino, e il responso via interfono fu: ‘Signor Roberto, continui i suoi studi di liceo perché è negato’. Iniziai a piangere, ma irruppe in sala il chitarrista di Fausto Cigliano che mi disse di non ascoltare ‘quei vecchi’ perché non capivano niente".

Tutti possono sbagliare.

"Io per primo. Ricordo che in una plumbea giornata romana del ’65 stavo lavorando con Mogol al testo di ‘Se piangi se ridi’ nel negozio Ricordi di Piazza Venezia quando entrò la commessa Elisabetta dicendo che all’ingresso c’era un ragazzo fradicio di pioggia con la chitarra in mano che chiedeva di poterci far ascoltare i suoi pezzi. Lo facemmo salire e si presentò: ‘buongiorno, mi chiamo Amedeo Minghi e avrei composto questa canzone qua’. Finito l’ascolto lo liquidai dicendo: ‘credi a me, lascia stare’. Nell’80, a Sanremo, ci incontrammo in albergo e lui, memore di quell’esperienza, disse: ‘Bobby, vorrei scriverti un brano’. E io: ‘ora che sei famoso, sì’".

E adesso?

"Ho tanta voglia di arrivare agli Ottanta… ma, ahimé, la testa è ancora quella del Bobby 19enne strappato dal successo alla vita reale. Sotto certi aspetti mio figlio Ryan, 12 anni, è più maturo di me. E dubito che col tempo riuscirò a migliorare".