Chi ha paura del latino cattivo?
La polemica sul latino è la riproposizione di quella che viene periodicamente rilanciata contro il liceo classico. La lettera del professor Gregory Alegi
La polemica sul latino è la riproposizione di quella che viene periodicamente rilanciata contro il liceo classico. La lettera del professor Gregory Alegi
Caro direttore,
la vispa Teresa gridava a distesa: “L’ho presa! L’ho presa! Ma a lei supplicano l’afflitta gridò: ‘Vivendo, volando che male ti fo’?”. La poesiola mi è tornata in mente per due motivi. Il primo: devo averla imparata a memoria alle elementari, 110 anni dopo che fu scritta. Il secondo: trovo sbagliata la polemica contro il ministro Giuseppe Valditara per le proposte di modifica ai programmi scolastici.
Per esempio, tornare alla separazione tra storia e geografia è cosa sacrosanta. Insegnando da quasi 30 anni vari tipi di storia in diversi atenei, ho toccato con mano il progressivo abbassamento degli standard in entrambe le materie. C’è chi all’esame di storia delle relazioni internazionali ha fatto confinare la Siria con la Tunisia, chi a Moderna non ha saputo dirmi quando le Marche divennero parte del Regno d’Italia, chi a Contemporanea non sa cosa sia quel monumento a Porta Pia, quasi nessuno mai che sappia distinguere la guerra di Libia (1911-12) da quella d’Etiopia (1935-36). In compenso, sono tutti sempre pronti alla geopolitica da bar. Ben venga la separazione, dunque.
La polemica sul latino, peraltro facoltativo, è la riproposizione di quella che viene periodicamente rilanciata contro il liceo classico. Diciamolo subito: sono di parte. Mio nonno materno fece il classico (quello paterno, il muratore), così come mia madre e mio suocero, io e mia moglie, che ovviamente non abbiamo lasciato scelta a nostra figlia. Ma non è questo il punto. Il sistema scolastico italiano non solo offre ampia scelta di indirizzi, non solo consente di accedere a qualsiasi facoltà universitaria a prescindere dagli studi fatti (giurisprudenza dallo sportivo? Medicina dal coreutico-musicale? Si-può-fareeeee!) ma impone a tutti gli indirizzi cinque anni di matematica, almeno tre di fisica e almeno due di chimica (al classico tre, per dire), mentre il latino è presente solo in 4 su 9.
Da questo si possono derivare due osservazioni.
Primo, che poiché circa il 94% degli studenti sceglie percorsi non classici, più che di togliere qualcosa al 6% bisognerebbe chiedersi perché da quella assoluta maggioranza non gravata da latino e greco non escano geni dei campi cosiddetti STEM. Metodi vecchi? Programmi inadatti?
Secondo, che il problema non riguarda il contenuto dell’insegnamento, ma l’imposizione di un punto di vista caratterizzato da invidia sociale o ideologia. Anziché attaccare il classico, chi ha a cuore l’istruzione superiore potrebbe tentare di contrastare l’abbandono scolastico precoce, che in Italia tocca il 14,5% contro il 4,7% della Grecia, il 9,3% della Svezia e il 10,7% del Regno Unito. Chissà quanti scienziati da recuperare ci sono in quei numeri! Ma poiché riportare i ragazzi a scuola è difficile, è più facile ripulirsi la coscienza attaccando il bau-bau del latino e del greco.
Le poesie mandate a memoria aprono un discorso troppo ampio per una lettera. Mi limito a dire che il loro abbandono si inquadrò nel più generico attacco al presunto nozionismo della scuola di una volta. Per carità, può darsi che lo fosse davvero e che sia stato un bene cambiare il modo d’insegnare. Sta di fatto che oggi i bullet point (che molti pronunciano ballet, e non credo sia perché abbiano studiato greco) dei pauerpoiin riducono la quantità di informazioni e la capacità di elaborare ragionamenti complessi, talché non è raro che gli studenti conseguano buoni risultati nelle prove a risposta multipla ma stentino in quelle aperte o addirittura nell’orale. E per carità non parliamo dell’intelligenza artificiale, scorciatoia che produce testi più corretti che memorabili (salvo quando, come è capitato a un collega, non attribuisca al docente un libro che egli non ha mai scritto).
Viviamo dunque nella migliore delle scuole possibili? No di certo. Sicuramente ci sono ampi spazi di miglioramento, che ciascun docente può individuare per la propria materia. Il problema maggiore è però la concezione della scuola quale posto di formazione utilitaristica per il lavoro anziché di crescita della persona. In primo luogo, perché il progresso (l’AI!) sta già eliminando molti lavori tecnici, a partire dal coding, al quale secondo i guru avremmo dovuto indirizzarci tutti da anni per diventare programmatori sottopagati. In secondo luogo, perché la capacità di osservare, orientarsi, decidere e agire (l’OODA loop, che naturalmente tutti i critici di Valditara conoscono a menadito) non è frutto di saperi tecnici ma di curiosità, diversità e contaminazione quali quelle che scaturiscono dalle materie umanistiche. Chi invoca la scuola “utile” dovrebbe spiegare perché intende condannare i giovani a vivere per 50-60 anni fa con le nozioni ridotte che erano ritenute utili quando avevano 15 anni.
Non avendo il tempo di rendere questa lettera più breve, la chiudo qui, ringraziando il ministro per lo stimolo a riflettere su cosa insegnare e come, senza gridare allo scandalo di fronte a ogni cambiamento. E, naturalmente, per aver eliminato la geostoria.
Et de hoc satis.
Ave atque vale.
Gregory Alegi