“Racconto di donne, spionaggio e resistenza africana”: parla la fotografa Silvia Rosi
L’autrice togolese-italiana descrive il suo lavoro in mostra alla Fondazione Mast di Bologna: “Sono foto sulle Nana Benz, venditrici di tessuti, emancipate, che hanno partecipato al movimento di indipendenza” L'articolo “Racconto di donne, spionaggio e resistenza africana”: parla la fotografa Silvia Rosi proviene da Globalist.it.
A prima vista sembrano spettri, invece in quei negativi appaiono vitali e intriganti, le sagome in bianco e nero di venditrici di tessuti del Togo che la fotografa Silvia Rosi espone alla Fondazione Mast di Bologna nella mostra a più voci “Photography grant on industry and work 2025”.
Curata da Urs Stahel, aperta fino al 4 maggio 2025, la rassegna raccoglie le opere di cinque finaliste/i selezionati per l’omonimo concorso annuale dell’istituto bolognese per under autori 35, è a ingresso gratuito prenotando tramite il sito e propone lavori dell’australiano Kai Wasikowski, della vincitrice statunitense di discendenza iraniana Sheida Soleimani, della congolese Gosette Lubondo, di Silvia Rosi, della britannica Felicity Hammond. La Fondazione è presieduta da Isabella Seragnoli.
Togolese-italiana nata a Scandiano in provincia di Reggio Emilia nel 1992, la fotografa lavora tra Londra, la sua cittadina emiliana e Tomé, capitale del Togo, Paese nell’Africa occidentale incuneato tra Ghana e Benin.
Tanti hanno conosciuto l’originalità del suo occhio fotografico, il rigore compositivo delle sue immagini, nei ritratti esposti a Bologna a fine gennaio 2024 ad “Arte Fiera”. Stavolta ha proposto alla Fondazione bolognese il progetto “Kodi” ricco di implicazioni e suggestioni così descritto dalla nota stampa: è una “serie di ritratti e autoritratti ispirati alle storie delle Nana Benz, le potenti donne che controllavano il commercio di tessuti wax a Lomé, nel Togo, figure importanti nella conquista dell’indipendenza dalle potenze coloniali”. Silvia Rosi si racconta con un sorriso accogliente e uno sguardo attento e riflessivo.
Qual è la storia di queste Nana Benz?
Il progetto è legato alle figure di mercanti e donne togolesi. “Nana” può riferirsi a mamma, a un soprannome materno, “Benz” perché vendendo tessuti le venditrici sono diventate così ricche da essere le uniche a potersi comprare delle Mercedes Benz che poi, nelle celebrazioni dell’indipendenza del Togo (nel 1960, ndr), prestarono al governo per accogliere i dignitari di tanti Paesi.
In conferenza stampa lei ha detto che queste donne nascondevano messaggi per chi lottava per l’indipendenza.
Durante uno dei miei viaggi in Togo mi hanno raccontato questa storia che non fa parte di quella ufficiale, documentata. Si riferisce alle Nana Benz che nascondevano messaggi da consegnare da una parte all’altra della città per supportare il movimento di indipendenza del Paese. Parto da questa storia di spionaggio e di resistenza e la collego a un linguaggio già intrinseco nei tessuti a cui loro, che li vendevano, attribuivano dei significati.
Quali significati, per citare qualche esempio?
Un tessuto si chiama “Mio marito è capace”, uno con i polli “La famiglia”. Un altro si chiama “Se tu esci esco anch’io” e si riferisce alla posizione della donna all’interno della società togolese e al desiderio di rompere quegli schemi. I tessuti hanno riferimenti che parlano anche della cultura del Paese, del ruolo delle donne al tempo.
Il discorso comprende anche l’emancipazione della donna?
Assolutamente sì. Avendo un’indipendenza economica derivata dalla vendita dei tessuti queste donne riuscivano a mantenersi, a pagare l’educazione dei bambini nella comunità, le loro famiglie, alcune hanno comprato appartamenti a Parigi: erano diventate quasi il pilastro di una società basata sul commercio.
Pur nella diversità le foto fanno pensare al lavoro sulle figure e sui tessuti del nigeriano e inglese Yinka Shonibare, artista presente anche all’ultima Biennale di Venezia, all’Arsenale. C’è qualche analogia?
In realtà no. Io parto dal tessuto “wax” per parlare di identità togolese, delle origini. Le Nana Benz erano conosciute in tutti i mercati dell’Africa occidentale e i mercanti venivano in Togo per comprare i loro tessuti. Shonibare parla più di legami vittoriani. Io vorrei dare uno sguardo contemporaneo e, anche se la storia delle Nana Benz è degli anni ’60, i tessuti sono ancora utilizzati.
È anche una storia politica, nel senso di spirito civile?
Mi rifaccio molto di più alla storia orale, all’idea di comunicare significati attraverso quello che indossiamo. Ora lavoro a un tessuto per una mostra a Berlino (aperta fino al 16 maggio al Protektorat, ndr): disegnato dai missionari tedeschi che hanno evangelizzato il Togo, si chiama Alfabeta, ci sono lettere e numeri e lavagne e lo indossavano le persone che frequentavano le prime scuole coloniali per mostrare orgoglio di aver appreso il sistema metrico e l’alfabeto latino. Le Nana Benz si sono appropriate di quei tessuti che evolvono e vengono ridisegnati: al posto della lavagna oggi c’è il tablet, dunque adesso non ha lo stesso significato della fine dell’800. Il tessuto viene utilizzato come simbolo di literacy, di alfabetizzazione.
I tessuti di queste donne sono vivacemente colorati. Perché nel ciclo esposto al Mast ha scelto il bianco e nero?
Perché quando ho appreso questa storia dal periodo di indipendenza del Togo mi hanno mostrato un ritratto di una Nana Benz: era un negativo di grande formato ed è anche legato al fatto che il negativo sia un messaggio già visibile, non completamente sviluppato, per cui ci troviamo a immaginare elementi non totalmente visibili o di cui non ci accorgiamo. Inoltre si ha un’idea di tessuti estremamente colorati, esoticizzati: forse il bianco e nero toglie quell’aspetto di distrazione e ci fa concentrare sugli elementi essenziali, più culturali.
I tessuti sono colorati a mano?
No, sono stampe con varie tirature, è un processo che gli inglesi e altri europei hanno preso dal batik.
Per la mostra del Mast 2025 a questo indirizzo trovate il link: https://www.mastphotogrant.com/current-edition/finalists/
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