L'isola di Pasqua, il collasso di una civiltà remota

Oggi l’isola di Pasqua è famosa per essere uno dei luoghi abitati più remoti del pianeta e per l’esistenza dei moai, magnifiche sculture antropomorfe erette da una civiltà ancestrale che sarebbe scomparsa in circostanze misteriose. Negli ultimi decenni la storia dell’isola è stata presentata come un modello di collasso ecologico e culturale dovuto all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei suoi abitanti, ma le ricerche più recenti hanno messo in discussione questa tesi.I primi europei a raggiungere l’isola furono i membri di una spedizione olandese guidata da Jacob Roggeveen. Vi approdarono la domenica di Pasqua del 1722 e decisero di battezzarla con il nome di questa festività. In realtà il toponimo locale dell’isola è Rapa Nui, un termine che indica anche gli indigeni che la abitano. L’isola di Pasqua è la vetta di un grande cono vulcanico sottomarino di circa tremila metri di altezza, nel mezzo dell’oceano Pacifico e dista oltre duemila chilometri dagli arcipelaghi più orientali della Polinesia e oltre tremila chilometri dalle coste del Sudamerica.Le enormi distanze che la separano dai punti abitati più vicini hanno alimentato il dibattito in merito al suo popolamento. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl sosteneva che l’isola fosse stata inizialmente colonizzata da una cultura amerindia successivamente annientata dai polinesiani. Nel 1947, per dimostrare che gli antichi abitanti del Sudamerica l’avevano raggiunta sulle loro rudimentali imbarcazioni e con il solo aiuto del vento e delle correnti marine, Heyerdahl intraprese una spedizione verso l’isola di Pasqua a bordo di una zattera costruita con materiali e tecnologie precolombiane, la Kon-Tiki.Gli archeologi e gli antropologi tuttavia non diedero molto credito a quest’ipotesi, perché tutte le prove indicavano che i primi colonizzatori erano di origine polinesiana, in accordo con le stesse leggende dei rapa nui. Gli attuali studi del DNA confermano questa teoria, sebbene non possano escludere una componente sudamericana nella popolazione autoctona dell’isola.Testimoni di una civiltà perdutaUno degli aspetti più misteriosi di Rapa Nui è la presenza su un’isola di poco più di 160 chilometri quadrati di oltre 900 grandi statue di pietra, i moai, che evidentemente rivestivano grande importanza nella cultura locale. Quasi tutti furono ricavati da un’unica cava, la caldera vulcanica del lago Raraku, da cui si poteva estrarre una roccia relativamente morbida molto simile al tufo. La civiltà che costruì i moai era neolitica – non conosceva cioè i metalli – e utilizzava quindi esclusivamente utensili fatti di rocce vulcaniche più dure, principalmente basalto estratto in altri coni vulcanici, in particolare quello del lago Kao. Le popolazioni all’origine della civiltà rapa nui sono inoltre considerate preistoriche in quanto si crede che non conoscessero la scrittura. Tuttavia sull’isola sono state trovate alcune tavolette in legno con un indecifrabile sistema glifico chiamato rongorongo, la cui origine e la cui cronologia restano incerte. Si sa solamente che segue il sistema bustrofedico: la direzione della scrittura cambia da riga a riga. Ma un aspetto ancor più enigmatico è costituito dalla scomparsa dell’ancestrale civiltà rapa nui, che conobbe una certa fioritura nel periodo che va dalla fase di colonizzazione iniziale dell’isola da parte dei polinesiani fino all’arrivo degli europei. Secondo le ricerche più recenti, il popolamento di Rapa Nui fu il culmine di un processo di espansione nel Pacifico iniziato a Taiwan nel 3000 a.C. e che raggiunse l’isola di Pasqua tra l’800 e il 1000 d.C. Dallo splendore alla catastrofeTutto ciò che sappiamo di quest’antica civiltà è stato ricostruito a partire dalle cronache dei primi visitatori europei (olandesi, spagnoli, inglesi e francesi), dalla tradizione orale tramandata fino ai rapa nui odierni e dai ritrovamenti archeologici. Una volta insediatisi sull’isola, i rapa nui costruirono con relativa rapidità una società moderatamente prospera che raggiunse il suo apice economico e demografico intorno al 1500. Riguardo alla popolazione massima ospitata dall’isola, le cifre ipotizzate variano notevolmente, anche se la maggior parte oscilla tra i seimila e gli ottomila abitanti (40-50 per chilometro quadrato); le stime più ottimistiche parlano invece di 20mila abitanti (125 per chilometro quadrato). L’attività economica s’incentrava su agricoltura, pesca e risorse costiere quali molluschi, crostacei e uccelli migratori. La struttura sociale si fondava sui clan, i cui capi erano divinizzati una volta morti. Secondo alcune teorie i moai erano delle rappresentazioni dei personaggi importanti della comunità dotati di poteri soprannaturali che garantivano la generosità del mare e della terra.All’inizio del XVI secolo la fiorente società rapa nui visse un cambiamento radicale e relativamente rapido, caratterizzato da un significativo calo demografico e dall’abbandono dell’antica cultura dei moai (ahu moai)

Jan 14, 2025 - 17:10
L'isola di Pasqua, il collasso di una civiltà remota

Oggi l’isola di Pasqua è famosa per essere uno dei luoghi abitati più remoti del pianeta e per l’esistenza dei moai, magnifiche sculture antropomorfe erette da una civiltà ancestrale che sarebbe scomparsa in circostanze misteriose. Negli ultimi decenni la storia dell’isola è stata presentata come un modello di collasso ecologico e culturale dovuto all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei suoi abitanti, ma le ricerche più recenti hanno messo in discussione questa tesi.

I primi europei a raggiungere l’isola furono i membri di una spedizione olandese guidata da Jacob Roggeveen. Vi approdarono la domenica di Pasqua del 1722 e decisero di battezzarla con il nome di questa festività. In realtà il toponimo locale dell’isola è Rapa Nui, un termine che indica anche gli indigeni che la abitano. L’isola di Pasqua è la vetta di un grande cono vulcanico sottomarino di circa tremila metri di altezza, nel mezzo dell’oceano Pacifico e dista oltre duemila chilometri dagli arcipelaghi più orientali della Polinesia e oltre tremila chilometri dalle coste del Sudamerica.

Le enormi distanze che la separano dai punti abitati più vicini hanno alimentato il dibattito in merito al suo popolamento. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl sosteneva che l’isola fosse stata inizialmente colonizzata da una cultura amerindia successivamente annientata dai polinesiani. Nel 1947, per dimostrare che gli antichi abitanti del Sudamerica l’avevano raggiunta sulle loro rudimentali imbarcazioni e con il solo aiuto del vento e delle correnti marine, Heyerdahl intraprese una spedizione verso l’isola di Pasqua a bordo di una zattera costruita con materiali e tecnologie precolombiane, la Kon-Tiki.

Gli archeologi e gli antropologi tuttavia non diedero molto credito a quest’ipotesi, perché tutte le prove indicavano che i primi colonizzatori erano di origine polinesiana, in accordo con le stesse leggende dei rapa nui. Gli attuali studi del DNA confermano questa teoria, sebbene non possano escludere una componente sudamericana nella popolazione autoctona dell’isola.

Testimoni di una civiltà perduta

Uno degli aspetti più misteriosi di Rapa Nui è la presenza su un’isola di poco più di 160 chilometri quadrati di oltre 900 grandi statue di pietra, i moai, che evidentemente rivestivano grande importanza nella cultura locale. Quasi tutti furono ricavati da un’unica cava, la caldera vulcanica del lago Raraku, da cui si poteva estrarre una roccia relativamente morbida molto simile al tufo. La civiltà che costruì i moai era neolitica – non conosceva cioè i metalli – e utilizzava quindi esclusivamente utensili fatti di rocce vulcaniche più dure, principalmente basalto estratto in altri coni vulcanici, in particolare quello del lago Kao. 

Le popolazioni all’origine della civiltà rapa nui sono inoltre considerate preistoriche in quanto si crede che non conoscessero la scrittura. Tuttavia sull’isola sono state trovate alcune tavolette in legno con un indecifrabile sistema glifico chiamato rongorongo, la cui origine e la cui cronologia restano incerte. Si sa solamente che segue il sistema bustrofedico: la direzione della scrittura cambia da riga a riga

Ma un aspetto ancor più enigmatico è costituito dalla scomparsa dell’ancestrale civiltà rapa nui, che conobbe una certa fioritura nel periodo che va dalla fase di colonizzazione iniziale dell’isola da parte dei polinesiani fino all’arrivo degli europei. Secondo le ricerche più recenti, il popolamento di Rapa Nui fu il culmine di un processo di espansione nel Pacifico iniziato a Taiwan nel 3000 a.C. e che raggiunse l’isola di Pasqua tra l’800 e il 1000 d.C. 

Dallo splendore alla catastrofe

Tutto ciò che sappiamo di quest’antica civiltà è stato ricostruito a partire dalle cronache dei primi visitatori europei (olandesi, spagnoli, inglesi e francesi), dalla tradizione orale tramandata fino ai rapa nui odierni e dai ritrovamenti archeologici. Una volta insediatisi sull’isola, i rapa nui costruirono con relativa rapidità una società moderatamente prospera che raggiunse il suo apice economico e demografico intorno al 1500. Riguardo alla popolazione massima ospitata dall’isola, le cifre ipotizzate variano notevolmente, anche se la maggior parte oscilla tra i seimila e gli ottomila abitanti (40-50 per chilometro quadrato); le stime più ottimistiche parlano invece di 20mila abitanti (125 per chilometro quadrato). L’attività economica s’incentrava su agricoltura, pesca e risorse costiere quali molluschi, crostacei e uccelli migratori. La struttura sociale si fondava sui clan, i cui capi erano divinizzati una volta morti. Secondo alcune teorie i moai erano delle rappresentazioni dei personaggi importanti della comunità dotati di poteri soprannaturali che garantivano la generosità del mare e della terra.

All’inizio del XVI secolo la fiorente società rapa nui visse un cambiamento radicale e relativamente rapido, caratterizzato da un significativo calo demografico e dall’abbandono dell’antica cultura dei moai (ahu moai) in favore della cosiddetta fase huri moai, incentrata sul culto dell’uomo uccello (tangata manu) e sulla sfida per diventare il rappresentante in terra del creatore supremo Make Make. Alcuni studiosi hanno attribuito queste trasformazioni alle guerre tra clan provocate dall’esaurimento delle risorse naturali. La foresta che copriva l’isola sarebbe scomparsa, in parte bruciata per far spazio a nuovi terreni coltivabili e in parte abbattuta per ricavarne legname con cui costruire case e imbarcazioni, ma soprattutto con cui trasportare i moai dalla cava di Raraku fino alla destinazione prescelta.

La combinazione di questi fattori con il sovrasfruttamento delle risorse marine e costiere avrebbe portato al collasso ecologico e alla conseguente disgregazione culturale. Tale processo è stato definito “ecocidio”, un termine che indica una distruzione dell’habitat naturale di tale portata da minacciare l’esistenza dei suoi stessi abitanti. La precarietà delle nuove condizioni di vita avrebbe portato all’abbandono del culto dei moai, che sarebbero stati rovesciati dai loro altari. Fino a pochi decenni fa l’idea di ecocidio si basava per lo più su ipotesi teoriche formulate a partire dalla tradizione orale rapa nui. Ma negli anni settanta il lavoro del paleoecologo britannico John Flenley, morto nel 2018, fornì delle prove a sostegno di quest’ipotesi.

Flenley analizzò il polline contenuto nei sedimenti degli unici tre corsi d’acqua dolce dell’isola adatti al consumo umano – i laghi Raraku e Kao, e una palude chiamata Aroi – e dimostrò che per almeno 34mila anni l’isola era stata ricoperta di palme, che poi erano scomparse improvvisamente per essere sostituite da distese erbose simili a quelle attuali. Dei precedenti palmeti non restava alcuna traccia. Secondo la datazione al carbonio 14 questo importante cambiamento ecologico coincideva all’incirca con l’epoca della colonizzazione polinesiana dell’isola. Ciò sembrava dimostrare la teoria del collasso sociale e ambientale, e quindi dell’ecocidio. L’isola di Pasqua divenne un modello in scala ridotta di quello che poteva succedere alle limitate risorse naturali presenti sulla Terra se non si fosse posto un freno al loro sfruttamento indiscriminato. 

Questo ha contribuito al moltiplicarsi delle pubblicazioni scientifiche e popolari a carattere catastrofista, il cui esempio più noto è forse il libro dello studioso statunitense Jared Diamond intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, pubblicato nel 2005. Con il sostegno dei risultati di Flenley, queste teorie si sono imposte sia sui mezzi di comunicazione scientifici sia su quelli popolari, contribuendo fino a oggi a divulgare l’ipotesi dell’ecocidio. 

Ma l’interpretazione dei dati di Flenley sul polline presentava alcuni problemi. Se la scomparsa delle foreste e il concomitante cambiamento ecologico erano indiscutibili, la cronologia di questo processo non era altrettanto chiara. Un’analisi dettagliata della datazione al carbonio 14 effettuata da Flenley mostrava che la scomparsa delle foreste aveva avuto luogo in qualche periodo compreso tra i 7.700 e i 520 anni fa. Ma il campione sedimentario non conteneva elementi che permettessero di determinare esattamente in che momento fosse avvenuto il cambiamento all’interno di questo intervallo temporale. Inoltre, Flenley aveva preso in considerazione solo il fattore umano, eppure varie ricerche hanno dimostrato che alterazioni ecologiche di questo tipo possono anche essere causate da cambiamenti climatici

Nuove ipotesi

Nell’ultimo decennio sono stati prelevati ulteriori campioni di sedimenti nei laghi di Raraku e Kao e nella palude di Aroi per colmare parte delle lacune lasciate da Flenley. Le analisi effettuate sul polline e altri indicatori hanno permesso di ricostruire la storia della vegetazione e del clima degli ultimi tremila anni. I nuovi dati hanno confermato che la foresta che copriva tutta l’isola era scomparsa per lasciare spazio a un manto erboso. Tale processo, però, non era stato improvviso e simultaneo come proposto dalla teoria dell’ecocidio. Ogni zona fu disboscata in momenti diversi e con ritmi diversi: se in alcune aree la deforestazione era avvenuta in un solo secolo, in altre aveva richiesto svariate centinaia di anni.

Inoltre, gli studi hanno permesso d’individuare alcuni periodi di forte siccità che avevano prosciugato il lago Raraku ma non il Kao, nei cui pressi sorse il villaggio di Orongo, centro del culto dell’uomo uccello. Tutto ciò suggerisce che siano avvenute delle migrazioni interne tra gli antichi rapa nui, provocate sia dalla deforestazione connessa all’attività umana sia dalla scarsità idrica frutto di eventi climatici. Secondo le ultime datazioni, questa situazione sarebbe andata avanti fino all’arrivo degli europei e il disboscamento dell’isola non si sarebbe concluso prima del 1600. A sostegno di quest’ipotesi ci sono anche delle prove archeologiche, come la continuità dell’agricoltura e degli insediamenti umani: non vi è infatti alcun declino delle attività agrarie e dei centri abitati fino al contatto con gli europei. Le ricerche nel frattempo proseguono e si spera che possano fornire una risposta a uno degli aspetti più enigmatici della storia dell’isola. La teoria dell’ecocidio sta perdendo invece di credibilità: gli isolani sfruttarono la foresta fino alla sua totale scomparsa, ma non in modo rapido e compulsivo, come affermano i catastrofisti, bensì gradualmente.

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La vera catastrofe

Ciò che avvenne in seguito all’arrivo degli europei è ampiamente documentato. I primi incontri tra i nuovi arrivati e la popolazione locale non furono privi di schermaglie e provocarono qualche vittima tra i rapa nui. Ma nulla fu così letale per loro come la schiavitù e l’introduzione di malattie contagiose prima sconosciute, contro le quali non avevano nessuna possibilità di difesa.

In realtà gli anni immediatamente successivi al primo sbarco degli europei furono relativamente tranquilli: fino al XVIII secolo le navi si fermavano a Rapa Nui solo per effettuare brevi esplorazioni e rifornirsi di viveri durante i lunghi viaggi transoceanici. Ma a partire dall’ottocento l’isola divenne un centro di prelievo degli schiavi che venivano mandati a lavorare nelle piantagioni o nell’industria della caccia alle foche del Sud-America. A causa di questi fattori la popolazione autoctona si ridusse progressivamente fino alla sopravvivenza di appena un centinaio di persone, che furono costrette a convertirsi al cattolicesimo, comportando la perdita della loro identità culturale. 

Fu questo genocidio sistematico, e non il presunto ecocidio, la causa del collasso dell’antica civiltà di Rapa Nui. 

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