Se tutto il nostro attivismo si basa solo sul digitale saremo schiavi dei capricci dei monopoli tech

Nessuna piattaforma social sarà mai immune al difetto di fabbrica dell’attivismo digitale: un giorno il proprietario potrebbe svegliarsi e decidere di consegnare tutto al Trump di turno, o peggio. Questo non significa che la soluzione sia spegnere tutto ma se il nostro attivismo si basa solo sulla dimensione digitale, ovvero se le informazioni importanti e utili che raccogliamo sui social e a cui forse non avremmo avuto accesso altrimenti non hanno alcuna ricaduta concreta sulla nostra vita e sulla nostra comunità, allora resteremo schiavi dei capricci dei monopoli tech. L'articolo Se tutto il nostro attivismo si basa solo sul digitale saremo schiavi dei capricci dei monopoli tech proviene da THE VISION.

Jan 14, 2025 - 17:09
Se tutto il nostro attivismo si basa solo sul digitale saremo schiavi dei capricci dei monopoli tech

Nel 2015 la poeta Rupi Kaur pubblicò su Instagram una foto che la ritraeva sdraiata su un letto e con indosso un paio di pantaloni macchiati di sangue mestruale, parte di un più ampio set fotografico che mostrava la quotidianità delle donne durante il ciclo. La foto fu subito rimossa da Instagram perché violava le regole della comunità, nonostante non mostrasse nudità o scene di violenza. Il post sul profilo Facebook di Kaur in cui si lamentava della censura della foto raggiunse in un giorno più di 3 milioni di like e contribuì a rendere l’allora semisconosciuta studentessa canadese di origini indiane una delle autrici di poesia più vendute al mondo. Fu anche la prima volta in cui l’opinione pubblica cominciò a porsi il problema dei limiti posti dalle piattaforme social sulla libertà di azione politica, domandandosi come fosse possibile fare attivismo se un algoritmo decide che il sangue mestruale va censurato tanto quanto quello di una ferita violenta.

Dieci anni dopo la foto di Kaur, la risposta alla domanda è chiara: non è più possibile. Mark Zuckerberg ha infatti annunciato con un video sul suo profilo personale di Facebook che Meta cambierà le policy di moderazione dei contenuti, in particolare eliminando il ruolo dei fact checker di terze parti sui contenuti politici. Ha inoltre detto che i team di moderazione verranno spostati dalla California al Texas, una mossa più simbolica che concreta, per allontanarsi dagli ambienti di quella che viene chiamata la “Woke Tech”. Il New York Times lo ha definito il “MAGA makeover” di Meta, iniziato ben prima dell’elezione di Trump. Oltre a diverse dichiarazioni in sostegno del nuovo presidente e incontri privati nella sua residenza di Mar-a-Lago, Zuckerberg ha nominato nuovi manager e amministratori di area repubblicana e a luglio di quest’anno ha ripristinato i profili Facebook e Instagram di Trump, che erano stati sospesi in seguito alla rivolta di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Mark Zuckerberg

Nel suo video, Zuckerberg ha giustificato la sua scelta dicendo che la moderazione dei contenuti e il fact checking limitano la libertà di espressione e che vuole tornare “alle origini” di Facebook (forse dimenticando che le origini di Facebook erano quelle di valutare la “scopabilità” delle sue compagne di corso a Harvard). Le sue parole e le sue azioni riecheggiano quelle di un altro novello sostenitore di Trump, Elon Musk, che nel 2022 ha comprato Twitter, ribattezzandolo X, per renderlo “una piattaforma per la libera espressione”. In effetti c’è stato un momento in cui i social hanno avuto un ruolo positivo nell’azione politica e nell’attivismo. Per esempio, sono stati di importanza vitale per i movimenti rivoluzionari e le proteste di massa che si sono verificate in Medioriente e in Nordafrica tra il 2010 e il 2012, note come “Primavere arabe”, tanto da spingere diversi governi a bandire l’accesso a Internet. Nello stesso periodo, per il movimento di Occupy Wall Street Twitter “ha rappresentato una importante risorsa per supportare gli obiettivi politici e sociali del movimento” e “ha avuto un ruolo nei processi collettivi di inquadramento che impregnano i movimenti sociali con un linguaggio, uno scopo e un’identità condivisi”, come ha osservato uno studio sull’attivismo digitale dell’Indiana University. Più in generale tutti i movimenti progressisti degli ultimi anni, da Black Lives Matter, alla nuova ondata del femminismo, arrivando a Fridays for Future, hanno beneficiato enormemente della diffusione dei social, ma si sono scontrati anche con i loro limiti: la censura dei contenuti, il cosiddetto slacktivism (il supporto di una causa attraverso strumenti digitali come le petizioni, senza alcuna azione concreta), l’attivismo performativo e le pratiche di washing da parte delle aziende.

Elon Musk

La differenza sostanziale tra l’influenza dei social nell’attivismo politico del 2010 e del 2025 sta però nel modo stesso in cui i social sono cambiati: i social network non sono più strumenti per tenersi in contatto con i compagni di scuola delle superiori, né semplici mezzi di comunicazione di massa, ma piattaforme che basano i propri meccanismi e i propri profitti sullo sfruttamento dei dati degli utenti, che devono essere costantemente tracciati e monetizzati. Come scrive Shoshana Zuboff ne Il capitalismo della sorveglianza, il capitalismo industriale ha trasformato le materie prime della natura in merci, quello della sorveglianza l’inverso: sono le materie prime della natura umana, cioè i nostri comportamenti e le nostre relazioni e, quindi, la politica, a essere trasformate in merci. Non che ai tempi delle Primavere arabe non ci fosse già il problema dell’appalto della democrazia a un’impresa privata, ma oggi le dimensioni di questo fenomeno si sono ingigantite al punto da sfuggire alla nostra comprensione: le conseguenze di ciò che scriviamo o consumiamo su un qualsiasi social non resteranno mai confinate alla nostra rete di follower e amici e nemmeno soltanto ai proprietari di quegli spazi, ma finiranno in mano a milioni di soggetti a noi ignoti che possono farne ciò che vogliono.

A dispetto di ciò che sostengono Zuckerberg e Musk, i social non sono mai stati la sede della libera espressione e, nel panorama attuale, la moderazione dei contenuti è forse l’ultimo dei problemi. Per anni, gli attivisti si sono concentrati su quanto le linee guida dei social riflettessero la visione del mondo dei loro proprietari, per esempio interpretando ogni seno nudo – anche quando allattava o mostrava la cicatrice di una mastectomia a seguito di un tumore – come “contenuto deplorevole”. Meta, a seguito delle pressioni di campagne come #FreeTheNipple, ha cambiato le proprie policy sulle immagini, ma contemporaneamente ha implementato un sistema che scoraggia la condivisione di contenuti politici, a meno che non si esprima la volontà di vederli nei propri feed. L’attivismo sui social, o quel che ne resta, si basa quindi sulla gentile concessione di un manipolo di miliardari che oggi ci consente di pubblicare una cosa e il giorno dopo no, che decide quanto e come quella cosa possa essere diffusa e che, in ogni caso, ne trarrà un proprio profitto.

Per anni si è preferito tenere questo problema sullo sfondo, limitandosi a cambiare piattaforma quando le cose si mettevano male: quando Facebook è diventato un “cimitero digitale” fatto solo di immagini AI assurde e teorie del complotto, ci siamo spostati su Instagram. Quando Musk ha comprato Twitter, milioni di persone si sono iscritte a Bluesky. Ma il problema è che nessuna piattaforma – nemmeno le più insubordinate come Telegram o Reddit – sarà mai immune al difetto di fabbrica dell’attivismo digitale: un giorno il proprietario potrebbe svegliarsi e decidere di consegnare tutto al Trump di turno, o peggio. Questo non significa che la soluzione sia spegnere tutto: l’accesso a Internet è un diritto fondamentale e uno strumento che, nel bene e nel male, ha un ruolo imprescindibile nel funzionamento delle nostre democrazie. Se però tutto il nostro attivismo si basa solo sulla dimensione digitale, ovvero se le informazioni importanti e utili che raccogliamo sui social e a cui forse non avremmo avuto accesso altrimenti non hanno alcuna ricaduta concreta sulla nostra vita e sulla nostra comunità, allora resteremo schiavi dei capricci dei monopoli tech.

L’attivismo digitale ha plasmato il nostro modo di fare politica, estendendo la mentalità algoritmica a ogni nostra azione. Gli effetti di questo cambiamento sono sempre più evidenti: la convinzione che le azioni della singola persona siano più rilevanti di quelle collettive, i meccanismi della sorveglianza e dell’auto-sorveglianza, il fatto che poniamo più fiducia nella capacità di cambiamento delle aziende che nelle istituzioni democratiche. Il primo passo per uscire dall’impasse dell’attivismo digitale è proprio quello di emanciparsi dalla dipendenza ideologica che abbiamo sviluppato nei confronti dei social. Se non possiamo fare nulla di fronte alle scelte scellerate dei vari Zuckerberg o Musk se non cancellarci dalle piattaforme che amministrano, abbiamo però ancora il potere di rifiutare che a dettare l’etica della nostra azione politica sia chi ha creato un social non per cambiare il mondo o proteggere i valori fondamentali della democrazia, ma solo per votare quale compagna di corso portarsi a letto.

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