Fatti non foste

C’è un misterioso, appassionante incrocio tra giornalismo e filosofia: la passione della realtà. Una realtà che trascolora inevitabilmente dai fatti in un linguaggio, in una rappresentazione, cioè in un modo di tornare a essere. Il giornalista deve sapere che la realtà ha una forma e che, come sosteneva Ludwig Wittgenstein, tale forma è linguaggio. Il […] The post Fatti non foste appeared first on L'INDIPENDENTE.

Feb 8, 2025 - 14:33
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Fatti non foste

C’è un misterioso, appassionante incrocio tra giornalismo e filosofia: la passione della realtà. Una realtà che trascolora inevitabilmente dai fatti in un linguaggio, in una rappresentazione, cioè in un modo di tornare a essere.

Il giornalista deve sapere che la realtà ha una forma e che, come sosteneva Ludwig Wittgenstein, tale forma è linguaggio. Il che significa che bisogna saper costruire e offrire una logica, sia per i ragionamenti in astratto, sia nei reportage e nelle inchieste in concreto.

Le testimonianze, le valutazioni, le dichiarazioni di un’intervista, i documenti stessi sono parole-fatti, e le riprese, gli scatti fotografici sono immagini-fatti, costruzioni formali che attendono una risposta e che il lettore, lo spettatore deve accogliere come frasi di un testo-realtà.

C’è una inevitabile complessità in ciò che accade. La voce e la scrittura giornalistica la devono raffigurare, scegliendo però una strada. Una strada che renda semplici da capire le conclusioni, anche provvisorie, a cui si arriva.

Una decisione nel fare sapere è, infatti, inevitabile e il giornalista è uno che, se vuole essere chiaro, deve decidere. Non c’è altro modo. Il linguaggio le scelte le impone. Il linguaggio non è un contenitore di comunicazione, è un atto, un modo di agire

Non i semplici fatti dunque, non gli accadimenti ridotti a cause, dati, protagonisti ed effetti ma l’irradiamento verso altri luoghi e altri tempi, come se la loro origine e la loro spiegazione fossero plurime e il loro modo di presentarsi invocasse una vera e propria teoria della realtà, una moltiplicazione di ciò che è vero, come in un mosaico che attende sempre di essere terminato.

«Il lavoro del filosofo – scriveva Wittgenstein – consiste nel mettere insieme ricordi, per uno scopo determinato». Così pure il giornalista, ma con una responsabilità sociale in più, quella che, ad esempio, va a costituire il rapporto fiduciario con il lettore.

Ricordo una conversazione con Italo Calvino, in preparazione dell’importante convegno Livelli di realtà nel lontano 1978: un discorso dominato da Ulisse.

Poliedrico era Ulisse, politropo come il polpo, diciamo una intelligenza delle profondità. Si tratta quindi di esplorare procedendo con mappe che si sovrappongono e non esauriscono mai il mondo di riferimento.

Correggendo sempre la barra del timone perché quel che avviene è sì una conferma ma contiene qualcosa di nuovo. Come per ogni lingua, per ogni linguaggio, che evolvono continuamente e che mutando fanno variare i confini tra comprensione e fraintendimento, tra realtà e finzione.

Con l’obiettivo dello svelamento, perché il giornalista e il filosofo sanno che le apparenze non bastano ma che la realtà può ingannare ancora più dell’apparenza.

[di Gian Paolo Caprettini]

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