Suicidi in carcere, conseguenza diretta di un problematico sistema detentivo in Italia
“L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione, che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Questo è quanto ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno andato in onda il 31 dicembre 2024. A dirla tutta queste parole pronunciate dal garante della carta costituzionale appaiono, alla luce dei dati relativi ai suicidi nei penitenziari italiani, come frasi fatte e prive di applicazione in senso pratico. Basti pensare che dal primo gennaio ad oggi già 8 detenuti si sono tolti la vita. Ma questo numero è tristemente destinato a crescere. Eppure il problema dei reclusi che decidono di porre fine alla loro sofferenza, nella maniera più estrema, è noto da tantissimo tempo. Infatti dai dati pubblicati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (GNPL) si nota che negli ultimi anni, ma in particolar modo dal 2021, c’è stata un’impennata dei suicidi e tentati suicidi nelle carceri italiane. Secondo lo studio effettuato per l’anno 2024 da Giovanni Suriano, componente del GNPL, sono più gli uomini che decidono di togliersi la vita rispetto alle donne, con una più alta tendenza al suicidio nell’età che va dai 26 ai 39 anni. Un dato allarmante è quello che riguarda la posizione giuridica delle persone che decidono di suicidarsi. Infatti, quasi la metà dei suicidi avvenuti l’anno scorso sono stati commessi da detenuti in attesa di primo giudizio, in carcere dunque non perché giudicati colpevoli, ma perché sottoposti alla più severa misura cautelare: la custodia cautelare in carcere. Quest’ultimo dato apre un ulteriore problema, cioè quello dell’eccessivo utilizzo di questa misura cautelare al fine di impedire la fuga dell’imputato, l’inquinamento delle prove o la reiterazione del reato. Un uso più parsimonioso della custodia cautelare in carcere porterebbe ad un abbassamento dei possibili casi di suicidi o tentati suicidi negli istituti penitenziari. Ma al di la di tutto è necessario porre l’attenzione sul fine primario che la carcerazione deve avere, cioè la rieducazione del reo. Tuttavia pensare che i detenuti, scontata la loro pena, possano essere riabilitati nella società sulla base del periodo trascorso in carcere, non solo appare puramente utopistico ma anche completamente impossibile. Certo, anche il sovraffollamento carcerario gioca un ruolo fondamentale sulla condizione di stress psicologico a cui i detenuti sono sottoposti. E nonostante l’Italia, nel lontano 2013, sia stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le disumane condizioni dei suoi penitenziari, la situazione non è migliorata. Anzi, di anno in anno va sempre peggio. È evidente che delle galere meno affollate, con dei veri percorsi rieducativi e riabilitativi per i detenuti, potrebbero rappresentare un valido deterrente per coloro i quali, trovandosi in una condizione di restrizione della propria libertà personale, decidono di togliersi la vita. E questo vale non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di Polizia Penitenziaria, poiché anche tra di essi avvengono casi di suicidi legati, nella maggior parte dei casi, alle condizioni in cui sono costretti a svolgere la propria attività lavorativa. Ma siamo un Paese nel quale molte persone si auspicano la reintroduzione della pena di morte. Dunque non possiamo meravigliarci se le carceri sono solo dei ghetti e non delle strutture per punire ma anche rieducare i detenuti.
“L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione, che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere”. Questo è quanto ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno andato in onda il 31 dicembre 2024.
A dirla tutta queste parole pronunciate dal garante della carta costituzionale appaiono, alla luce dei dati relativi ai suicidi nei penitenziari italiani, come frasi fatte e prive di applicazione in senso pratico.
Basti pensare che dal primo gennaio ad oggi già 8 detenuti si sono tolti la vita. Ma questo numero è tristemente destinato a crescere.
Eppure il problema dei reclusi che decidono di porre fine alla loro sofferenza, nella maniera più estrema, è noto da tantissimo tempo. Infatti dai dati pubblicati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (GNPL) si nota che negli ultimi anni, ma in particolar modo dal 2021, c’è stata un’impennata dei suicidi e tentati suicidi nelle carceri italiane.
Secondo lo studio effettuato per l’anno 2024 da Giovanni Suriano, componente del GNPL, sono più gli uomini che decidono di togliersi la vita rispetto alle donne, con una più alta tendenza al suicidio nell’età che va dai 26 ai 39 anni.
Un dato allarmante è quello che riguarda la posizione giuridica delle persone che decidono di suicidarsi. Infatti, quasi la metà dei suicidi avvenuti l’anno scorso sono stati commessi da detenuti in attesa di primo giudizio, in carcere dunque non perché giudicati colpevoli, ma perché sottoposti alla più severa misura cautelare: la custodia cautelare in carcere.
Quest’ultimo dato apre un ulteriore problema, cioè quello dell’eccessivo utilizzo di questa misura cautelare al fine di impedire la fuga dell’imputato, l’inquinamento delle prove o la reiterazione del reato. Un uso più parsimonioso della custodia cautelare in carcere porterebbe ad un abbassamento dei possibili casi di suicidi o tentati suicidi negli istituti penitenziari.
Ma al di la di tutto è necessario porre l’attenzione sul fine primario che la carcerazione deve avere, cioè la rieducazione del reo. Tuttavia pensare che i detenuti, scontata la loro pena, possano essere riabilitati nella società sulla base del periodo trascorso in carcere, non solo appare puramente utopistico ma anche completamente impossibile.
Certo, anche il sovraffollamento carcerario gioca un ruolo fondamentale sulla condizione di stress psicologico a cui i detenuti sono sottoposti. E nonostante l’Italia, nel lontano 2013, sia stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le disumane condizioni dei suoi penitenziari, la situazione non è migliorata. Anzi, di anno in anno va sempre peggio.
È evidente che delle galere meno affollate, con dei veri percorsi rieducativi e riabilitativi per i detenuti, potrebbero rappresentare un valido deterrente per coloro i quali, trovandosi in una condizione di restrizione della propria libertà personale, decidono di togliersi la vita. E questo vale non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di Polizia Penitenziaria, poiché anche tra di essi avvengono casi di suicidi legati, nella maggior parte dei casi, alle condizioni in cui sono costretti a svolgere la propria attività lavorativa.
Ma siamo un Paese nel quale molte persone si auspicano la reintroduzione della pena di morte. Dunque non possiamo meravigliarci se le carceri sono solo dei ghetti e non delle strutture per punire ma anche rieducare i detenuti.