Rendicontazione di sostenibilità, la direttiva europea è sotto attacco
Il premier tedesco Scholz asseconda le destre e chiede di alleggerire la normativa europea sulla rendicontazione di sostenibilità L'articolo Rendicontazione di sostenibilità, la direttiva europea è sotto attacco proviene da Valori.
Anno nuovo, vecchi vizi in Europa. Ovverosia, ci risiamo col tira e molla sulla Csrd, la direttiva europea sulla rendicontazione di sostenibilità (Corporate sustainability reporting directive).
Cosa prevede la direttiva europea sulla rendicontazione di sostenibilità
La nuova direttiva europea sulla rendicontazione di sostenibilità, approvata nel 2022, ha sostituito e innovato la storica Non financial disclosure regulation (Nfdr) del 2014, che per la prima volta in Europa aveva introdotto l’obbligo, per le imprese più grandi, di dare conto su temi di sostenibilità.
Con la Csrd il bacino di applicazione è stato ampliato già a partire dalla sua entrata in vigore a inizio di quest’anno, fino a comprendere le piccole e medie imprese quotate da inizio 2026. Per cui a cascata, cioè indirettamente attraverso in particolare i rapporti di fornitura, la rendicontazione è diventata un tema che riguarda di fatto un po’ tutti, quello che si dice una questione sistemica. Che è poi l’obiettivo di fondo della norma.
Il problema è che proprio per questo motivo sono cresciuti quasi automaticamente, in numero e peso specifico, gli oppositori effettivi e potenziali della Csrd. Se proprio non vogliamo chiamarli nemici. Quelli cioè che prima hanno messo il bastone fra le ruote lungo tutto l’iter verso l’approvazione. Poi, passata la norma, hanno cambiato obiettivo, iniziando a far pressione per procrastinare il più possibile i suoi effetti. E anche cercando ogni modo per annacquarla, operazione che oggi in linguaggio politically correct – perché le parole contano, come diceva quello – si è soliti esprimere parlando di richieste di “semplificazione”.
La lettera di Olaf Scholz alla presidenza della Commissione europea
Una richiesta simile è arrivata nei primissimi giorni di quest’anno, e ai massimi livelli istituzionali, dal Paese che nel Vecchio Continente ha da sempre il maggior peso. Vale a dire la Germania. Il cancelliere Olaf Scholz, sfiduciato a metà dicembre ma in carica fino alle elezioni di fine febbraio, ha scritto direttamente alla presidenza della Commissione europea chiedendo appunto di “semplificare” la Csrd.
E meno male che è un premier di area progressista che, almeno in teoria, rispetto ai conservatori dovrebbe essere più a favore della transizione e, in generale, della sostenibilità. Perché lasciano di stucco le motivazioni addotte da Scholz. Sembrano quasi un copia e incolla di quelle che in Germania, Paese che tra l’altro non ha ancora recepito la direttiva nel proprio ordinamento (l’Italia lo ha fatto con il D.Lgs.125/2024), hanno avanzato esponenti del mondo economico e imprenditoriale per fare ostruzione. E che alcuni ministri tedeschi (fra cui, udite udite, anche il ministro all’Azione climatica, Robert Habeck) hanno accolto. Girandole a dicembre alle autorità di Bruxelles, segnatamente alla commissaria europea ai Servizi finanziari Maria Luís Albuquerque, con la richiesta di un rinvio della Csrd.
Scholz ha infatti giustificato le sue richieste con ragioni di competitività, con la necessità di ridurre la burocrazia a carico delle imprese, il che fa venire in mente la guerra ai “lacci e lacciuoli” del mantra neoliberista. E si è spinto ben oltre la rendicontazione di sostenibilità. Finendo per mettere in discussione, così come fatto dai suoi ministri, alcuni dei pilastri dell’impianto normativo faticosamente costruito negli ultimi anni in ambito europeo: tassonomia dei settori e attività sostenibili (che già ha i suoi bei problemi), standard di rendicontazione per la sostenibilità (European sustainability reporting standards, Esrs), direttiva sulla due diligence (Corporate sustainability due diligence directive, Csdd) e compagnia. Estremamente chiaro il messaggio: competitività e crescita, mantra neoliberista per eccellenza, vengono prima di tutto. Con tanti saluti a sostenibilità, ambiente, clima.
Che ne sarà delle normative europee sulla sostenibilità?
È abbastanza evidente che l’uscita di Scholz ha a che fare con motivazioni politiche ben più che tecniche. Le elezioni in Germania si avvicinano e per contrastare le destre, in ascesa anche lì, occorre provare a cavalcare la loro tradizionale retorica anti-ambientalista. Del resto, dopo le elezioni europee del giugno scorso, è lo stesso Parlamento di Strasburgo ad essersi spostato decisamente più a destra. E anche la nuova Commissione di Bruxelles si è espressa chiaramente in questo senso fin dai suoi primi passi. Al punto che in tanti temono sia fortemente a rischio l’intero impianto del Green Deal.
Se anche l’Unione europea – obiettivamente all’avanguardia – comincia a innescare la retromarcia sulla transizione ecologica, con il 2024 anno più caldo mai registrato e i minacciosi venti di guerra che spirano dalla nuova amministrazione statunitense verso tutto ciò che sa di green, la domanda che sorge spontanea è: che ne sarà della sostenibilità, della tutela dell’ambiente, della lotta alla crisi climatica? Più ancora: che ne sarà di noi? È il caso di porsela molto seriamente, di darsi la risposta e soprattutto di attivarsi di conseguenza. Perché guardando all’orizzonte non si scorge nessuno che sia capace di venire a salvarci, o quanto meno che sia intenzionato a farlo.
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